di Gianmarco Botti
“L’America apparirà in piena luce
quando il mondo saprà che essa antepone i diritti umani
a ogni altro diritto
e che la sua bandiera non è solo dell’America ma dell’umanità”
Dopo il professore di diritto Taft, un altro accademico si insediò alla Casa Bianca. Woodrow Wilson aveva insegnato storia e scienze politiche in diverse università prima di approdare alla prestigiosissima Princeton, di cui era stato nominato rettore nel 1902. Dopo aver cercato inutilmente di democratizzare l’ateneo e riformarne la struttura antiquata ed elitaria, si dimise per accettare la candidatura a governatore del New Jersey. In barba a chi lo aveva etichettato come uno dei tanti democratici conservatori del Sud per le sue origini familiari e sociali (nato in Virginia e cresciuto in Georgia, era figlio di un pastore presbiteriano proprietario di molti schiavi), Wilson si rivelò un riformatore anche in politica: suo obiettivo primario era strappare una volta per tutte il voto dei progressisti dalle mani di Roosevelt e dei Repubblicani, accreditando il Partito Democratico come il vero partito del progresso. Le presidenziali del 1912 gliene offrirono l’occasione. Durante la campagna elettorale si diedero battaglia due opposte visioni del futuro, e allo slogan rooseveltiano che inneggiava ad un “nuovo nazionalismo”, Wilson oppose il proprio programma di riforme, incentrato sulla promessa di una “nuova libertà” per il popolo americano. La brillante retorica del professore, che nulla aveva da invidiare a quella dell’avversario, fece breccia nell’elettorato, che gli consegnò la vittoria seppur per un pugno di voti. Eletto con un esiguo 42% di suffragi popolari, Wilson non ci stava a fare il presidente di minoranza: da subito si impegnò, proprio come aveva fatto Roosevelt durante il suo mandato, a rafforzare la leadership presidenziale, mettendo in pratica alcune idee che aveva già esposto nella sua tesi di laurea e in un saggio del 1908 intitolato “Governo costituzionale negli Stati Uniti”. Riprese la vecchia consuetudine, abbandonata dai tempi di Jefferson, di intervenire personalmente in Congresso e per l’intera legislatura esercitò un forte controllo sui deputati democratici. Il carattere ostinato e tenace di Wilson si rivelò particolarmente nelle scelte di politica estera, che furono sempre dettate da convinzioni radicatissime nella sua visione del mondo prima ancora che nella sua ideologia politica: che si veda in lui il classico esponente dell’imperialismo americano, oppure il sincero benefattore dei popoli oppressi, Wilson non tradì mai la sua fede nel ruolo “provvidenziale” degli Stati Uniti d’America, chiamati ad essere nel mondo un faro di democrazia e libertà e a difendere questi valori ovunque fossero minacciati, ricorrendo, se necessario, anche all’uso della forza. Fu per questo che, nonostante la solenne promessa di trattare i Paesi latinoamericani “in termini di uguaglianza e di onore” e il rifiuto, dopo le imprese di Roosevelt nella zona di Panama, di annettere di nuovo anche solo “un metro di territorio con la forza”, Wilson mandò l’esercito nel Messico sconvolto dalla rivoluzione affinché alla dittatura del generale Huerta si sostituisse un governo costituzionale e democratico sul modello occidentale. Fu per questo che, nonostante si dichiarasse da sempre pacifista, lui che aveva trascorso la sua infanzia nel Sud devastato dalla Guerra Civile, decise di condurre gli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale. Allo scoppio del conflitto, in realtà, Wilson si era affrettato a dichiarare la neutralità americana rispetto ad una guerra “con cui non abbiamo niente a che fare e le cui cause non ci possono toccare”. Aveva anche invitato le potenze in lotta a discutere i termini di una “pace senza vittoria”, che mettesse al riparo da nuovi rancori e guerre future e sancisse l’uguaglianza fra le nazioni, l’autodeterminazione dei popoli, la limitazione degli armamenti. Tuttavia, davanti al prolungarsi del conflitto e alla morte di alcuni cittadini americani, vittime della guerra sottomarina tedesca, il presidente si vide costretto ad intervenire. Con un discorso vibrante e appassionato, in cui la guerra veniva presentata come una crociata in difesa della giustizia, Wilson riuscì ad avere ragione di un Congresso che fino ad allora aveva sostenuto la neutralità. Applausi scroscianti e sventolio di bandiere accompagnarono la partenza delle navi americane, che nel giro di pochi mesi avrebbero determinato l’esito della guerra. Wilson, ricevuto in Europa come un messia ed esaltato in tutto il mondo per aver difeso le ragioni della pace e della cooperazione internazionale, al ritorno in patria sarebbe andato tuttavia incontro ad una cocente sconfitta. L’impegno frenetico in favore del trattato di Versailles, che avrebbe sancito l’approvazione internazionale del suo programma di pace in quattordici punti, gli costò, nel settembre 1919, un ictus celebrale. Rimasto semiparalizzato, Wilson non poté intervenire nel dibattito parlamentare e a novembre il Congresso a maggioranza repubblicana respinse il trattato di Versailles e l’adesione degli USA alla Società delle Nazioni. La creatura più autentica del pensiero wilsoniano era abortita nel momento della sua nascita. Deluso e frustrato, Wilson dovette accontentarsi di ricevere il Premio Nobel per la Pace e passare alla storia come il presidente pacifista cui era toccato guidare gli Stati Uniti nella Grande Guerra. Sotto la sua presidenza era nato quello strano rapporto tutto americano fra guerra e pace che chiamiamo “guerra umanitaria”.