di Gianmarco Botti
“Ciò di cui l’America al momento ha bisogno non è l’eroismo ma la cura delle sue ferite, non un toccasana ma la normalizzazione, non la chirurgia ma la serenità, non gli esperimenti ma l’equilibrio, non l’avventurarsi nei problemi internazionali ma la salvaguardia di un trionfante nazionalismo”
Con il voto del 1920 gli americani espressero la loro voglia di normalità. Stanchi di sentir parlare di guerra, Europa, Trattato di Versailles e Società delle Nazioni, volevano che la politica tornasse ad occuparsi dei problemi di casa propria. Lo zelo missionario di Wilson e la sua retorica universalistica avevano perso il loro appeal e i Repubblicani si preparavano a riconquistare la Casa Bianca. Quello di cui avevano bisogno era un candidato che potesse interpretare il malessere diffuso e il desiderio di cambiare rotta, una sorta di anti-Wilson: lo trovarono in un oscuro senatore dell’Ohio, tale Warren G. Harding. Uomo affabile e di buona compagnia, amante del poker e del whisky, prima di entrare in politica Harding aveva diretto un giornale di provincia, fondato grazie alle sovvenzioni di amici e parenti. La sua formazione intellettuale lasciava piuttosto a desiderare e in campagna elettorale era diventato famoso per l’oratoria ampollosa e piena di luoghi comuni. Il linguista Henry Louis Mencken paragonò lo stile dei suoi discorsi ad “un ippopotamo che si dibatte per liberarsi da una palude di melassa” e i detrattori più accesi si chiedevano: “se un uomo non è in grado di governare la lingua del Paese che gli ha dato i natali, come può governare il Paese che gli ha dato i natali?”. In ogni caso non dovettero essere in molti a farsi questa domanda, perché alle elezioni Harding ebbe un successo strepitoso, ottenendo la vittoria con il margine di voti più alto di ogni altro candidato nella storia americana. Iniziava una delle presidenze più controverse di sempre, su cui il giudizio degli storici si è a lungo interrogato e diviso. A dispetto della sua indole conservatrice, Harding si espose in prima persona per convincere le grandi aziende del settore siderurgico a concedere agli operai la giornata lavorativa di otto ore e promosse politiche progressiste di regolamentazione del mercato agricolo. D’altro canto, però, quando si trattò di affrontare le tensioni del mondo del lavoro, il presidente fece ricorso alla repressione e all’imbroglio: per porre fine allo sciopero dei minatori del West Virginia riprese la vecchia abitudine di inviare l’esercito e convinse gli operai delle zone carbonifere dell’Illinois a interrompere le proteste convocando una commissione d’indagine sulle loro precarie condizioni di lavoro, salvo poi ignorarne le raccomandazioni quando venne fuori un quadro di miseria e disperazione. Altrettanto ambigue furono le scelte di Harding riguardo alla composizione del gabinetto di governo: da un lato, rivelando in maniera quasi patetica la consapevolezza dei suoi limiti, volle essere affiancato da persone competenti e di lunga esperienza come l’ex presidente Taft (ministro della Giustizia) e il futuro presidente Hoover (ministro del commercio); dall’altro si circondò di personaggi di dubbia moralità, pescati da quella consorteria personale che i giornali avevano sinistramente soprannominato “la gang dell’Ohio”. Fu questo l’errore più grave della presidenza Harding. Ruberie, sottrazioni indebite, scambi di tangenti gettarono discredito sull’intera amministrazione, finché, con la condanna del Ministro dell’Interno ad un anno di carcere per corruzione, non si raggiunse il fondo: mai prima di allora un uomo di governo era stato arrestato per reati penali. A quel punto il presidente non poteva più rimanere in silenzio. Nel 1923 iniziò un giro di conferenze attraverso il Paese per parlare ai suoi elettori e rassicurare l’opinione pubblica. Il 2 agosto era giunto alla tappa californiana di San Francisco, quando, nel bel mezzo di una conversazione con sua moglie nella suite presidenziale, cadde a terra e morì. A lungo un alone di mistero ha avvolto le cause della sua morte: se siano stati lo stress e l’amarezza accumulati nella stagione degli scandali, oppure un avvelenamento, come sospettato da alcuni, non è stato mai appurato. Ugualmente misteriose restano le responsabilità di Harding negli episodi di malversazione che coinvolsero il suo governo. Secondo alcuni il presidente non poteva non sapere e magari parte del danaro sottratto allo stato era anche finito nelle sue tasche. Secondo altri rimase totalmente estraneo alle manovre dei suoi collaboratori e, anzi, ne rimase profondamente amareggiato una volta che vennero alla luce. Un chiaroscuro, la presidenza Harding, nel quadro di una storia, quella americana, che è fatta di luci ma anche di ombre.