di Gianmarco Botti
“L’affare dell’America sono gli affari”
Gli anni ’20 segnarono negli Stati Uniti una stagione di notevole sviluppo economico e insieme di crisi culturale. Gli accattivanti modelli della società del benessere rischiavano di minare alla radice i valori fondanti dell’identità americana e i conservatori erano in agitazione. Alla ricerca di un leader che potesse difendere l’“americanità” da ogni contaminazione, lo trovarono in Calvin Coolidge, subentrato alla presidenza dopo la morte di Harding. Nato in Vermont in una famiglia di commercianti di ascendenza puritana, Coolidge rappresentava in pieno quello strettissimo intreccio di “spirito capitalistico” e “etica protestante” che il sociologo tedesco Max Weber aveva analizzato nel suo più famoso saggio. Conservatore, sostenitore del libero mercato e della non interferenza dello stato negli affari economici, nel 1919 era stato eletto governatore del Massachusetts, stato di tradizione progressista. In una stagione politica dominata dal cosiddetto “terrore rosso”, si era guadagnato la fama di inflessibile tutore della legalità intervenendo con durezza per placare le tensioni sociali. L’interruzione dello sciopero dei poliziotti di Boston portò Coolidge alla ribalta del panorama politico nazionale: nel 1920 il suo nome fu scelto, come garanzia di onestà e sobrietà, per affiancare quello di Harding, giocatore e bevitore incallito, nella corsa alla Casa Bianca e accreditare il team presidenziale davanti all’elettorato repubblicano più intransigente. Uscito indenne dagli scandali che travolsero l’amministrazione, Coolidge poté insediarsi come nuovo presidente nel 1923, forte della sua reputazione irreprensibile. Gli avversari vedevano in lui il tipico esponente della borghesia snob e bacchettona del New England, ma per la maggior parte degli americani Coolidge rappresentava una figura rassicurante. Erano gli anni del proibizionismo, del contrasto all’immigrazione europea (nel 1927 i due italiani Sacco e Vanzetti furono giustiziati con l’accusa di essere degli anarchici), dell’esplosione di un rinnovato razzismo incarnato dal Ku Klux Klan, del cosiddetto “processo alla scimmia” con cui ebbe inizio l’infinita controversia fra evoluzionisti e creazionisti per l’insegnamento nelle scuole. Il presidente seppe farsi interprete delle inquietudini dell’America profonda, quella bianca e cristiana, che, secondo le sue stesse parole, voleva “rimanere americana”. Per questo si affrettò a rafforzare la politica isolazionistica del suo predecessore e a tirar fuori gli Stati Uniti dalle questioni internazionali, non prima però di aver preteso dalle nazioni europee, sostenute finanziariamente durante la Guerra, il pagamento dei debiti. Lo stato di prostrazione economica e sociale in cui l’Europa versava nel dopoguerra non era per Coolidge una ragione sufficiente perché venisse meno agli impegni presi e così, dando voce allo sdegno dell’opinione pubblica americana, espresse tutto il suo stupore per il mancato pagamento con una celebre frase: “Hanno avuto il denaro, no?”. La grettezza e la ristrettezza di vedute che si celavano dietro tali parole ispirarono però politiche di ben maggiore lungimiranza, come quelle del vicepresidente Charles G. Dawes (Premio Nobel per la Pace nel 1925), che varò un piano di aiuti alla Germania per metterla in condizione di pagare le pesanti riparazioni. Sul piano interno Coolidge si mosse nel solco del liberismo più radicale: abbassamento delle tasse per le imprese, tagli consistenti alla spesa pubblica, sostegno al mondo degli affari, il tutto reso sostenibile da una congiuntura decisamente positiva, che sembrava rendere l’economia americana inattaccabile. Rieletto nel 1924, Coolidge concluse il suo mandato conservando un’eccezionale popolarità (ancora negli anni ’80 Ronald Reagan si riferirà a lui come al suo presidente preferito). Se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto essere il candidato repubblicano anche nelle elezioni successive, ma preferì uscire di scena per dedicarsi alla stesura della sua autobiografia. Era il 1929.