di Gianmarco Botti
“Beati i giovani perché erediteranno il debito pubblico”
Con la vittoria repubblicana alle elezioni del 1928, l’America dei “ruggenti anni ’20”, cresciuta nel mito della prosperità e dell’ascesa individuale, scelse di affidarsi ad un ex ingegnere minerario, ora imprenditore di successo, di nome Herbert Hoover. Hoover era il prototipo del perfetto self-made man: rimasto orfano di padre in tenera età, era cresciuto in un’arretratissima comunità rurale dell’Iowa, prima di intraprendere gli studi e laurearsi brillantemente alla Stanford University. Dopo anni passati a dirigere miniere in varie parti del mondo, aveva accumulato una fortuna divenendo uno dei più giovani milionari americani. Durante la Prima Guerra Mondiale si mise in luce per le sue qualità umane e imprenditoriali come direttore della Food Administration, una compagnia incaricata di rifornire i Paesi alleati di generi alimentari: sotto la sua amministrazione fu aumentata la produzione e triplicate le esportazioni e insieme si riuscì a persuadere la popolazione a razionare volontariamente il proprio fabbisogno di cibo. L’ascesa di Hoover sul palcoscenico della politica lo portò a ricoprire l’incarico di ministro del commercio nelle amministrazioni Harding e Coolidge: in quella veste conquistò la fiducia del mondo degli affari promuovendo la formazione di associazioni commerciali che adottarono codici di comportamento e mantennero in equilibrio prezzi e profitti. Forte di questo sostegno e di una grande stima popolare, Hoover decise di tentare il colpo grosso e alle elezioni del 1928 ottenne una vittoria schiacciante contro i Democratici. Un grande entusiasmo aveva accolto la promessa di debellare definitivamente la povertà, resa credibile dalla sua storia personale e dalla sua sincera filantropia. Eppure qualcosa andò storto. A pochi mesi dall’insediamento del nuovo presidente, nell’ottobre del 1929, l’America visse il suo primo venerdì nero, con il quale si apriva quella stagione di acuta crisi sociale prima ancora che economica che fu la Grande Depressione. Nonostante i suoi buoni propositi, Hoover si rivelò totalmente inadeguato ad affrontare la situazione. La sua filosofia politica, sintetizzata nell’esaltazione di un “vigoroso individualismo” quale unica via veramente americana per risollevare l’economia, si basava sull’idea che non fosse compito del governo federale far fronte ai problemi sociali causati dalla depressione: erano i singoli (industrie, comunità locali e individui) che dovevano lavorare, sulla base di una cooperazione volontaria, alla ricucitura del tessuto lacerato dell’economia. Un intervento statale avrebbe indebolito, secondo Hoover, il senso di responsabilità dei cittadini e distrutto quella fiducia nelle capacità individuali che costituiva la fibra morale della nazione. Nel tentativo di tirare su il morale degli americani, Hoover provò più volte a minimizzare la portata della crisi, denunciandone la natura psicologica e assicurando che presto si sarebbe entrati in una nuova stagione di prosperità. Ma più eloquente della sua retorica ottimistica era il grido di disperazione che veniva dalla cruda realtà: orde di disoccupati premevano ai margini della società, le aziende fallivano e ovunque si diffondeva il germe della miseria. Soltanto quando i colpi della crisi fecero crollare ogni residua fiducia nella capacità di autoguarigione dell’economia americana, Hoover si convinse, non senza una certa riluttanza, a fare qualcosa: la creazione di un ente federale, la Reconstruction Finance Corporation, con lo scopo di prestare denaro alle banche e alle aziende in crisi, fu interpretata dalla popolazione impoverita come l’ennesima beffa di un presidente che appariva sempre più insensibile alle sue necessità. La popolarità della Casa Bianca raggiunse i minimi storici: alle baraccopoli che sorgevano alla periferia delle grandi città raccogliendo la gran massa dei disoccupati fu dato ironicamente il nome di “Hooverville”. Ricandidando Hoover alle elezioni del 1932, il Partito Repubblicano si preparò ad un’inevitabile sconfitta. La Storia non ha perdonato un presidente che pure si dimostrò più lungimirante di altri nell’affrontare alcune importanti questioni di politica interna ed estera: il profondo rispetto per la popolazione indiana e le sue tradizioni lo portò ad intervenire più volte per alleviarne le dure condizioni di vita; nella gestione dei rapporti con l’America Latina si rifiutò di assumere atteggiamenti imperialistici arrivando perfino a ripudiare la dottrina Monroe e il suo corollario rooseveltiano. Nella sostanza quello di Hoover era un capitalismo dal volto umano, sinceramente animato da intenti filantropici, ma incapace di distaccarsi dai dogmi del liberismo classico: il taglio della spesa e l’interruzione dei lavori pubblici furono i suoi più grandi errori. Perché il capitalismo possa dimostrare al mondo di essere ancora in grado di coniugare sviluppo economico e riformismo sociale, profitto e solidarietà, bisognerà aspettare la presidenza successiva. E quello sarà il New Deal.