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Corsa all’oro nero. La Sicilia diventa il paradiso petrolifero, Greenpeace lancia la campagna “U mari nun si spirtusa”

di Roberto P. Ormanni

È terminata appena qualche giorno fa la campagna di protesta contro le trivellazioni petrolifere che l’associazione ambientalista Greenpeace ha compiuto nel Canale di Sicilia. La manifestazione itinerante, battezzata “U mari nun si spirtusa” (“Il mare non si buca”), è partita da Palermo il 15 Luglio e si è spostata lungo la costa meridionale della Sicilia con l’intento di sensibilizzare i cittadini e convincere i sindaci a firmare un appello rivolto al ministero dell’Ambiente che vuole “difendere – spiega Giorgia Monti, responsabile campagna Mare – il Canale di Sicilia dalla corsa al petrolio e garantire una tutela duratura del mare, fonte di biodiversità e ricchezza per chi vive sulla costa”.
LA CORSA ALL’ORO NERO. Il Canale di Sicilia è uno dei nuovi territori individuati dalle compagnie petrolifere per le esplorazioni off-shore e le estrazioni di idrocarburi. La corsa all’oro nero siciliano vede sfidarsi compagnie straniere note, come la Shell e la Northern Petroleum. Ma non mancano altre compagnie, come ENI e EDISON, Transunion Petroleum e Audax Energy. I permessi di ricerca già concessi nell’area del Canale sono undici, mentre diciotto sono le nuove richieste in via di valutazione. La metà di queste ultima istanze rispondono al nome della compagnia Northern Petroleum, una delle compagnie maggiormente interessate al Canale. La stessa Northern Petroleum afferma nel proprio rapporto annuale che quest’area è “prioritaria” e che sta “cercando partner per sviluppare questi progetti”.
IN ATTESA DI PERMESSI.Restano sul tavolo di valutazione anche tre permessi di estrazione. Due di questi, richiesti dalle compagnie AGIP-EDISON, interessano le aree al largo della costa tra Licata e Porto Empedocle e la zona ad Ovest di Pantelleria. L’istanza di quest’ultima zona, però, dovrebbe essere rigettata perché totalmente interferente con le norme. Il terzo permesso richiesto, invece, fa riferimento alla compagnia ENI e si localizza nel mare antistante la costa di Licata.

Vega A, la più grande piattaforma petrolifera off-shore italiana al largo di Pozzallo, opera su concessione EDISON-ENI

COLTIVAZIONE. Nel frattempo, però, tre permessi di estrazione sono già stati concessi: due, di fronte la costa di Gela, sono sotto il controllo di ENI Mediterranea Idrocarburi e uno, al largo di Pozzallo, risponde all’EDISON in compartecipazione con ENI. Le piattaforme marine per l’estrazione di olio greggio di questi tre titoli sono quattro: trentatré pozzi petroliferi attivi, una produzione di quasi 330.000 tonnellate nel 2011, circa seicentosessanta chilometri quadrati di coltivazione. Coltivazione. E’ il termine tecnico che indica l’estrazione petrolifera, la formula utilizzata dalle compagnie: coltivazione del giacimento. Le aree di maggior interesse per la ricerca della futura coltivazione sono quelle al largo delle isole Egadi (nella parte nord del Canale). Ma sotto l’occhio delle compagnie ci sono anche le aree sud della costa (tra Sciacca e Gela) e l’area del Canale di Malta (tra Malta e Sicilia).
FABBISOGNO (IN)SODDISFATTO. Se si guarda alle piattaforme attive nel Canale di Sicilia e alla loro produzione (330.525 tonnellate nel 2011), si nota come il petrolio qui estratto contribuisce ben poco a soddisfare il fabbisogno nazionale: soltanto lo 0,46% delle 71.877 migliaia di tonnellate consumate nel 2011. Le riserve recuperabili (calcolate sommando il volume delle riserve certe, il 50% di quelle probabili e il 20% di quelle possibili) stimate dal Ministero dello Sviluppo Economico a fine 2011, raggiungono le 5.456,6 migliaia di tonnellate di olio greggio: questa quantità non basterebbe a coprire il fabbisogno nazionale di petrolio neanche per un mese.

Attivista di Greenpeace durante la protesta sulla spiaggia di Scala dei Turchi a Realmonte (Agrigento)

IL PARADISO DEL PETROLIO. Con il prezzo di vendita del petrolio in costante aumento, le industrie petrolifere raggiungono un massimo guadagno nonostante una minima estrazione. Tuttavia, il profitto va a crescere in maniera esponenziale specialmente in Italia, vero paradiso fiscale dei magnati del petrolio.
Le imposte dirette sulla produzione (aliquote o royalties) sono solo del 4% per gli idrocarburi estratti in mare, con un’esenzione per le prime 50.000 tonnellate di petrolio prodotte annualmente. Il nuovo Decreto Legge “Misure Urgenti per la crescita del paese” porterebbe le aliquote al 7%, un valore comunque basso considerato che le royalties variano mediamente dal 10 all’80%. In Canada, per esempio, le royalties variano dal 10 al 45% in funzione di qualità e prezzi. Negli Stati Uniti, invece variano dal 12,5 al 30%.
In questo quadro, il gettito fiscale è suddiviso tra Stato e Regione nella misura del 45% allo Stato e del 55% alla Regione. Il Ministero dello Sviluppo Economico riporta che i contributi versati nel 2011 dalle compagnie attive nel Canale di Sicilia sono stati in totale 2.674.280 euro, di cui 1.470.854 destinati alle casse regionali.
Oltre alle aliquote, in Italia, le compagnie sono tenute a pagare dei canoni annui per l’utilizzo del sottosuolo, il cui valore (ancora minimo secondo gli standard) finisce nelle casse dello Stato. Nel 2011, sono stati versati 48.826 euro per una superficie di coltivazione petrolifera di seicentosessanta chilometri quadrati. Comprare un appartamento di settanta metri quadri al centro di Roma, vista Colosseo, costerebbe quindici volte tanto.
U MARI NUN SI SPIRTUSA. La campagna di Greenpeace, nel suo svolgersi, ha coinvolto quarantatré sindaci siciliani, il governo della Regione Sicilia, associazioni di pescatori e comitati locali per chiedere al Ministero dell’Ambiente “di proteggere in modo efficace il Canale di Sicilia e gli ecosistemi marini di tutte le coste” attraverso “il blocco immediato di ogni processo di autorizzazione per progetti di ricerca e perforazione off-shore”, la “definizione di Siti di Interesse Comunitario (SIC) per tutelare aree marine di pregio ambientale” e la “rapida istituzione nel Canale di Sicilia di una Zona di Protezione Ecologica (ZPE) che permetta di applicare a quest’area marina le norme italiane ed europee in materia di protezione degli ecosistemi marini”. I sostenitori della protesta sottolineano i rischi di un’incontrollata corsa al petrolio: è ancora vivo il ricordo della “marea nera” nel Golfo del Messico del 2010, provocata dall’incidente della piattaforma Deep Water Horizon. “Un incidente nel Canale di Sicilia – spiegano i volontari Greenpeace – sarebbe un disastro: qui si trova il 40% della flotta da pesca regionale che genera oltre il 17% dei ricavi nazionali del settore e le province che si affacciano sul Canale assorbono quasi il 39% del turismo regionale”. La mobilitazione, intanto, prosegue sul web, dove oltre 40.000 persone hanno firmato la petizione per fermare le trivellazioni: u mari nun si spirtusa.