di Gianmarco Botti
“Questo è soprattutto il momento di dire la verità, tutta la verità,
con franchezza e coraggio. Non abbiamo bisogno di ritirarci
dal guardare in faccia le condizioni del nostro Paese oggi.
Questa grande nazione resisterà e ha resistito, rivivrà e prospererà. Quindi, prima di tutto, lasciatemi dire che la sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa: il terrore senza nome, irragionevole, ingiustificato, che paralizza gli sforzi necessari per convertire
la ritirata in avanzata”
Il 4 marzo 1933, a poco più di un mese dalla nomina di Hitler a cancelliere del Reich tedesco, il democratico Franklin D. Roosevelt giurò come trentaduesimo presidente degli Stati Uniti d’America. Era un momento cruciale per il destino delle nazioni occidentali e due popoli, lontanissimi per cultura e storia politica, ma colpiti dalla medesima crisi economica, si trovavano ad imboccare strade diametralmente opposte per uscire dalla Depressione. Strade che di lì a poco li avrebbero portati a combattere, su fronti contrapposti, un nuovo Conflitto Mondiale più duro del precedente. Roosevelt lo aveva detto nel suo discorso d’insediamento, che la crisi andava affrontata come si affronta una guerra. E toccò proprio a lui, attraverso la sua leadership carismatica consolidata da ben quattro vittorie elettorali (caso unico nella storia della presidenza), guidare gli americani nelle due sfide più decisive del XX secolo. Il suo era il profilo di un uomo vincente, quello giusto per risollevare il morale della nazione in uno dei momenti più bui della sua storia: nato in una famiglia facoltosa di New York che vantava una lontana parentela col vecchio presidente Theodore Roosevelt (di cui Franklin D. sposò la nipote prediletta, sua cugina Eleanor), aveva studiato nelle scuole più prestigiose prima di laurearsi ad Harvard. Attratto da sempre dalla carriera politica, si era presto fatto un nome nel Partito Democratico, arrivando a ricoprire non ancora trentenne l’incarico di sottosegretario alla marina nel gabinetto Wilson. Neppure un attacco di poliomelite sopraggiunto nel 1921, che lo lascerà in sedia a rotelle per il resto della sua vita, riuscì a fermarlo e nel 1928 fu eletto governatore dello stato di New York. Proprio New York fu il laboratorio in cui Roosevelt cominciò a testare le sue idee riformiste, impegnandosi in particolare, nei primi durissimi anni della Depressione, a garantire un’assistenza ai disoccupati. Intanto, in vista delle presidenziali del 1932, andava disegnando il progetto di un New Deal, un “nuovo corso per il popolo americano”, anche se, per tutta la campagna elettorale, Roosevelt rimase piuttosto vago su cosa questo dovesse significare. Nei mesi che passarono fra la sua schiacciante vittoria (vinse in tutti gli stati tranne sei) e l’insediamento, l’economia americana continuò a peggiorare, le banche erano sull’orlo del collasso, la popolazione sempre più povera. Il primo obiettivo di Roosevelt fu ristabilire un clima di fiducia e liberare gli americani dal peso opprimente della paura che paralizzava i consumi e la cooperazione: a questo scopo prese l’abitudine di tenere discorsi radiofonici con frequenza settimanale, le cosiddette “fireside chats” (chiacchierate al caminetto), in cui si rivolgeva direttamente ai cittadini e li informava sull’azione del governo. I primi cento giorni di Roosevelt furono un periodo di attività frenetica, con un’infinità di progetti di legge discussi e approvati in tempi brevissimi: l’Emergency Banking Relief Bill mise in sicurezza il sistema bancario, ponendolo sotto il controllo federale, mentre il Federal Emergency Relief Act stanziò ben 500 milioni di dollari per i sussidi ai disoccupati. I lavori pubblici, interrotti dalla precedente amministrazione repubblicana, furono riavviati con rinnovato vigore: un esercito di disoccupati trovò lavoro nella costruzione di scuole, ospedali, tribunali, strade e grandi opere, come la diga del fiume Tennessee. Di indole niente affatto dogmatica, nelle sue scelte Roosevelt si ispirò alle più varie teorie economiche e fu sempre disponibile ad ascoltare i suggerimenti del suo gruppo di consiglieri, il cosiddetto “brain trust”, formato da professori, avvocati e giornalisti con cui era solito consultarsi fin dai tempi in cui era stato governatore. Indubbiamente, però, le politiche di welfare promosse dalla presidenza Roosevelt attraverso il ricorso all’intervento statale e ad un’economia parzialmente pianificata, sono debitrici delle teorie sviluppate qualche anno prima dall’economista britannico Keynes. Ciò che premeva a Roosevelt, a dispetto di quanti lo accusavano di comportarsi come un socialista, era salvare il capitalismo americano, e questo a suo avviso poteva esser fatto solo se lo si coniugava alla solidarietà sociale. Davanti alla mancata ripresa dell’economia, egli diede nuovo impulso alle riforme, impegnandosi in particolare nella tutela dei ceti meno abbienti, “quel terzo di paese male alloggiato, malvestito e malnutrito”, come lo chiamava Roosevelt. Gli storici parlano addirittura di un “secondo New Deal”: fu istituito un sistema di previdenza sociale obbligatorio, venne riconosciuta la rappresentanza sindacale e fu difesa la piena libertà di associazione per i lavoratori. Anche se le condizioni di vita degli americani videro un netto miglioramento, l’economia faticava a risollevarsi e nel 1937 cadde nuovamente in recessione. Bisognava attendere il Conflitto Mondiale, col suo carico di spese militari e di investimenti per il sostegno alle nazioni alleate, perché l’economia americana potesse tornare a prendere quota. Negli affari esteri da principio Roosevelt era stato un isolazionista. La sua politica “di buon vicinato” nei confronti dell’America Latina significava un sostanziale disimpegno rispetto alle vicende che non riguardavano direttamente gli interessi degli USA e Roosevelt preferiva decisamente dedicarsi alla risoluzione dei problemi interni. Ma quando, nel dicembre 1941, l’attacco giapponese alla base hawaiana di Pearl Harbor portò il conflitto sul territorio americano, Roosevelt si sentì costretto ad intervenire. Con la sua oratoria immaginifica, il presidente spronò gli Stati Uniti a riscoprire la loro vocazione di “arsenale della democrazia”, fucina di valori e ideali che dovevano giocare un ruolo decisivo nella costituzione del nuovo assetto mondiale. Questa fu la guerra, ideale prima ancora che militare, in cui Roosevelt, da vero commander in chief, condusse la nazione e la portò avanti senza tentennamenti. Particolarmente importante era nella visione rooseveltiana la costituzione di un organismo sovranazionale, le Nazioni Unite, che avrebbe avuto il compito di difendere la pace e costruire un nuovo ordine globale fondato sui valori dell’Occidente. Pur stremato dalla battaglia che aveva combattuto con coraggio, Roosevelt decise di accettare da “buon soldato” una quarta candidatura alla Casa Bianca, nonostante la sua salute apparisse ormai irrimediabilmente compromessa. Uscito nuovamente vincitore, non poté tuttavia vedere la fine della guerra: il 12 aprile 1945 la morte lo colse improvvisamente mentre era a Warm Springs, in Georgia. Fu uno choc nazionale, gli Stati Uniti sentivano di aver perso la loro guida. Ad altri toccherà prendere le gravissime scelte che porteranno ad una rapida conclusione del conflitto. Intanto, il 30 aprile, Hitler moriva suicida asserragliato nel suo bunker.