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33. Harry Truman, l’uomo sbagliato

Harry Truman, democratico (presidente dal 1945 al 1953)

di Gianmarco Botti

“Un presidente deve capire la politica per governare, ma può essere eletto anche se non è così”

Harry Truman divenne presidente quasi per caso e in uno dei frangenti più tragici della storia americana e mondiale. La sua vicenda personale lo rendeva decisamente inadeguato alle gravissime decisioni che si trovò a dover prendere. Entrato in politica grazie all’appoggio di amici influenti, aveva alle sue spalle una vita in fattoria e un fallimentare tentativo di lanciarsi nel settore dell’abbigliamento maschile. Ciononostante, nel 1934 si era aggiudicato il seggio di senatore del Missouri e durante il mandato aveva ottenuto una certa fama ricoprendo l’incarico di presidente di una commissione d’indagine sulle spese per la difesa. Nel 1945, quando Roosevelt iniziò la sua quarta presidenza, Truman fu scelto per sostituire il vicepresidente in carica Henry A. Wallace, avversato dai big dei partito perché troppo radicale. Nessuno poteva immaginare (neppure Truman) che di lì a qualche mese questo senatore ambizioso ma di scarsa preparazione politica si sarebbe ritrovato a sedere sulla poltrona di Roosevelt. Chiamato a sostituire un grande presidente che era diventato una sorta di totem nazionale, sulle prime Truman cercò di sopperire alla propria inesperienza seguendo le linee della politica estera del suo predecessore. Per questo si impegnò a fondo affinché il sogno rooseveltiano di un nuovo ordine mondiale fondato sulla pace e la cooperazione fra i popoli prendesse corpo nell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Mentre si sviluppavano i progetti che avrebbero disegnato l’assetto del Dopoguerra e si andavano definendo le logiche bipolari destinate a scandire l’era della Guerra Fredda, la guerra era ancora tutt’altro che conclusa e minacciava, con la strenua resistenza del Giappone, di protrarsi all’infinito. Davanti al numero crescente di perdite americane e alla necessità di chiudere rapidamente il conflitto, Truman rilasciò, nel luglio 1945, la cosiddetta “dichiarazione di Potsdam”: i giapponesi dovevano arrendersi subito e in maniera incondizionata, altrimenti sarebbero andati incontro ad un’“immediata e totale distruzione”. Il secco rifiuto del Giappone convinse Truman che non si poteva attendere oltre. Il 6 agosto su Hiroshima fu sganciata la prima bomba atomica. Il 9 fu la volta di Nagasaki. La distruzione fu davvero totale. La resa giapponese fu firmata il 2 settembre nella baia di Tokio a bordo di una nave americana che, in maniera significativa, portava il nome dello stato di provenienza del presidente Truman, “Missouri”. Ma con il Giappone gli USA non avevano perso tutti i loro nemici: l’ex alleato Stalin mostrava sempre meno rispetto verso i patti stabiliti e l’indole vivacemente anticomunista di Truman contribuì a far precipitare gli eventi. Nacque la “dottrina Truman”, con l’obiettivo di contenere il potere sovietico: bisognava evitare che l’Urss estendesse la propria influenza, creando un forte blocco comunista che potesse contrapporsi a quello occidentale. Concretamente si trattava di sostenere tutti i Paesi minacciati dall’aggressività dei russi e dall’infiltrazione dell’ideologia bolscevica, scopo che fu perseguito attraverso il piano di aiuti all’Europa varato dal ministro degli Esteri Marshall. Le speranze di Truman erano però destinate ad andare incontro ad una cocente delusione. Nel 1949 i comunisti presero il potere in Cina, vincendo l’opposizione nazionalista fortemente sostenuta dall’amministrazione americana. L’anticomunismo del presidente, così evidente nelle scelte di politica estera, risultò decisamente ammorbidito quando egli si trovò ad affrontare i problemi interni. A partire dai primi anni ’40, si era diffuso nell’opinione pubblica il timore di un’imminente sovversione comunista, portata avanti da nemici infiltrati nel tessuto sociale e politico americano. In un clima di sospetto e paura che metteva gli uni contro gli altri nella lotta al “nemico interno”, Truman oppose il suo veto a numerose leggi, presentate al Congresso, che miravano a limitare i diritti civili. Oltre alla registrazione delle organizzazioni comuniste e paracomuniste e all’esclusione dei comunisti dai pubblici uffici nel settore della difesa, qualcuno proponeva addirittura l’istituzione di campi di concentramento per comunisti nei momenti di emergenza nazionale. Il buonsenso di Truman nel respingere tali aberrazioni non riuscì tuttavia ad evitare che attorno ad un dinamico senatore del Wisconsin, tale Joseph McCarthy, si coagulasse un forte movimento di opposizione anticomunista che avrebbe di lì a poco scatenato la più accanita “caccia alle streghe” dell’età contemporanea. Degni di lode furono anche gli sforzi di Truman per combattere la segregazione razziale e le discriminazioni verso la popolazione di colore. Meno assennata e sicuramente incostante fu la linea che egli tenne nelle scelte di politica economica. La sua incapacità di gestire gli scioperi e il comportamento oscillante con cui affrontò la battaglia per l’abbassamento dei prezzi, gli alienarono le simpatie dei principali fautori del New Deal. Il Fair Deal, il nuovo programma di riforme sociali presentato da Truman, non rifletteva certamente la profondità e l’ampiezza di vedute che avevano caratterizzato il “nuovo corso” inaugurato da Roosevelt. Dopo l’abbandono della vecchia guardia rooseveltiana, l’amministrazione Truman rimase preda della “banda del Missouri”, la cricca di personaggi squallidi e di dubbia reputazione di cui il presidente si era circondato negli anni in cui era stato senatore. Il governo fu colpito da accuse di corruzione, ma Truman non fu direttamente implicato.
Sul suo doppio mandato alla casa Bianca, terminato nel 1953, grava, occultandone i lati positivi, una nube di limiti ed errori, fitta come quella che avvolse Hiroshima in quel tragico agosto 1945. Per molti versi egli fu l’uomo sbagliato nel momento sbagliato, chiamato a prendere decisioni più grandi di lui e in buona parte messo in ombra dall’immensità del suo predecessore.