di Gianmarco Botti
“L’unica possibilità di vincere la Terza Guerra Mondiale
è quella di prevenirla”
Nei momenti più difficili della loro storia gli americani hanno spesso scelto di affidarsi alla leadership forte e rassicurante di un generale, convinti che chi è in grado di guidare un Paese in guerra possa farlo anche in pace. Era naturale quindi che nel 1953, al termine del secondo mandato di Truman, l’interesse di entrambi i partiti si concentrasse sul generale Dwight Eisenhower, già Comandante delle Forze Nato in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale. Le sue doti di abile coordinatore, capace di risolvere i contrasti e tenere uniti i propri subordinati, insieme alla straordinaria eco dello sbarco in Normandia, ne avevano fatto una sorta di eroe nazionale. Corteggiato a lungo dai Democratici e inizialmente restio a scendere in campo, alla fine Eisenhower si convinse ad accettare la candidatura offertagli dall’ala moderata del Partito Repubblicano. Condusse la campagna elettorale con equilibrio e mitezza, poi con sempre maggiore energia, conquistando grosse fette di elettorato tradizionalmente legate ai Democratici, come quelle del Sud e dei centri urbani del Nord. Alla prova dell’election day, il generale non smentì la sua fama di uomo vincente: ottenne il 55% dei consensi e il suo nome guadagnò molti voti in più del suo partito.
Fin dal suo insediamento egli volle marcare una netta cesura rispetto alle amministrazioni precedenti: le prerogative presidenziali, estese a dismisura da Roosevelt e Truman, andavano ridimensionate e molto più spazio doveva esser dato, nella visione di Eisenhower, al Congresso e alla stessa Costituzione, di cui egli aveva un rispetto quasi religioso. In particolare, da buon repubblicano, era convinto che il governo federale dovesse ridurre al minimo i propri interventi in materia economica, limitandosi a tutelare il benessere dei singoli: era quel che Eisenhower chiamava “conservatorismo dinamico”. Le conquiste sociali garantite dal New Deal non furono però toccate in alcun modo, anzi, furono addirittura incrementate: fu esteso il sistema di previdenza sociale e aumentati i sussidi per la disoccupazione, il minimo salariale fu garantito per legge e Eisenhower si impegnò in prima persona nel dialogo con i sindacati. Il proposito di tenere i conti in ordine fu presto abbandonato per favorire la crescita economica ed evitare gravosi tagli alla spesa pubblica. La presidenza Eisenhower coincise con i cosiddetti “anni d’oro” della società americana, in cui essa ritrovò quella tranquillità e pace sociale che troppo a lungo erano mancate. I conflitti della stagione maccartista erano ormai definitivamente archiviati (proprio sotto Eisenhower il senatore McCarthy fu messo sotto accusa e in breve tempo uscì di scena) e la moderazione politica del presidente era quel che ci voleva per rassicurare gli umori di un elettorato stanco di dar la caccia alle streghe. Scontata era la candidatura di Eisenhower per un secondo mandato e, dopo esser guarito da una grave malattia, egli si ripresentò al congresso repubblicano, ottenendo la nomination per acclamazione. La vittoria del 1956 fu ancor più schiacciante di quella del 1952 e segnò un nuovo successo personale per Eisenhower, che si vide riconfermato alla Casa Bianca senza che il suo partito avesse ottenuto la maggioranza in nessuna delle due Camere. Il secondo mandato di Eisenhower cadde tuttavia in anni più turbolenti e inevitabilmente risultò assai meno brillante del precedente. La lotta dei neri per la conquista dei diritti civili entrava allora nel vivo, mentre un pastore di colore della Georgia di nome Martin Luther King faceva il suo ingresso sulla scena pubblica dando inizio ad un massiccio movimento di disobbedienza civile. Da parte sua Eisenhower fece il possibile perché le leggi in vigore a tutela dell’uguaglianza razziale fossero rispettate: davanti al rifiuto espresso da alcune scuole dell’Arkansas di ammettere al proprio interno studenti di colore, il presidente inviò un reparto di paracadutisti per garantire l’ingresso dei bambini neri a scuola. Provvedimenti d’emergenza come questo non riuscirono tuttavia a favorire reali progressi nel processo d’integrazione e se molti genitori bianchi preferirono mandare i loro figli in scuole private piuttosto che accettare la fine della segregazione, allora vuol dire che c’era ancora molta strada da fare. In politica estera le scelte strategiche di Eisenhower, oscillanti fra la passività e un interventismo poco lungimirante, non diedero i risultati sperati: la sua proposta di un negoziato per risolvere la spinosa questione delle due Coree non portò a nulla; lo stop imposto dagli USA all’azione degli anglofrancesi in Egitto, volto ad evitare un intervento russo in difesa dello stato africano, e la promozione di una soluzione pacifica della crisi di Suez portarono ad un brusco raffreddamento dei rapporti con gli alleati europei; il sostegno alle dittature reazionarie in Sud America si accompagnò all’aggravarsi delle tensioni con Cuba e gli USA cominciarono a pensare ad un intervento militare sull’isola. Eisenhower ebbe però il merito di opporre una strenua resistenza alle pressioni dell’ala ultranazionalista del suo stesso partito ed evitò in ogni modo l’impiego delle armi nucleari nei conflitti in atto. Egli fu a tutti gli effetti un outsider, nel suo partito come nel mondo culturale da cui proveniva. Militare non militarista, conservatore fortemente attento ai problemi sociali, Eisenhower seppe dar voce, nell’America degli anni ’50, ad una destra moderata e pragmatica che oggi non c’è più, soppiantata da quella “nuova destra”, ideologica e movimentista, che dalla rivoluzione reaganiana agli odierni Tea Party ha assunto il monopolio del Partito Repubblicano.