di Gianmarco Botti
“Credo che il nostro tempo esiga inventiva,
immaginazione, rinnovamento e decisione.
Io chiedo a ciascuno di voi di essere uno dei pionieri
di questa nuova frontiera”
L’impresa più difficile, quando si scrive di John F. Kennedy, è distinguere la vera storia dell’uomo e del presidente dal mito. Da una parte c’è una delle presidenze più brevi della storia, due anni appena, un percorso incompleto interrottosi bruscamente, sul quale gli storici fanno ancora fatica a formulare un giudizio univoco. Dall’altra c’è la leggenda di JFK, il leader politico più noto e amato del Novecento, il volto di una nazione giovane e piena di entusiasmo, assurto a fama imperitura con la sua tragica morte e ancora vivo nella saga mai conclusa della più celebre dinastia americana. A quasi cinquant’anni da quel 22 novembre 1963, in cui un ex marine di tendenze marxiste di nome Lee Harvey Oswald gli sparò mentre attraversava le vie di Dallas, persistono ancora molti interrogativi, non solo sulla morte, ma soprattutto sulla vita e sulla presidenza di John F. Kennedy. Vale allora la pena di ripercorrere brevemente i quarantasei anni (di cui dieci trascorsi in politica) di una vita che si presenta quanto mai complessa e contraddittoria a chi voglia comprendere dove finisce la realtà e dove inizia il mito di un uomo che, comunque sia, ha segnato il XX secolo. Nato in Massachusetts in una ricca famiglia cattolica di ascendenza irlandese, era il secondo dei nove figli di Joseph P. Kennedy, imprenditore di successo, e Rose Fitzgerald, figlia del sindaco di Boston. Fra le ambizioni del capofamiglia c’era quella di vedere un Kennedy alla Casa Bianca e così, dopo la morte del primogenito Joseph jr., ucciso durante un’operazione aerea nella Seconda Guerra Mondiale, il testimone passò a John. Ragazzo timido e distaccato, egli non nutriva da principio alcun interesse per la carriera politica, ma al vecchio patriarca non si poteva dir di no. Dopo essersi laureato brillantemente ad Harvard, partì per un lungo viaggio nel Vecchio Continente, con lo scopo di completare la sua formazione studiando i sistemi politici europei. In quegli anni sviluppò una spiccata attitudine per la vita mondana e cominciò a testare quel suo fortissimo fascino sul genere femminile che non lo abbandonerà per tutta la vita. Al ritorno in patria, lo attendevano le prime prove elettorali: a ventotto anni fu eletto alla Camera dei Rappresentanti, a trentasei era già senatore. In Senato il giovane Kennedy diede prova di una notevole inesperienza e si segnalò come uno dei parlamentari più assenteisti: era infatti costretto da fastidiosi problemi di osteoporosi, aggravati da un trauma subito mentre giocava a football, a lunghi periodi di riposo e, proprio l’anno dopo la sua elezione, rimase per alcuni giorni fra la vita e la morte, cadendo in coma durante un intervento alla spina dorsale. La rapida riabilitazione e la tenacia tipica dei Kennedy lo misero in breve tempo in condizione di affrontare la sfida decisiva e di aggiudicarsi, contro l’opinione di quanti lo ritenevano un dilettante, la nomination democratica per le presidenziali. Le elezioni del 1960 furono le prime in cui i candidati presero parte ad un dibattito televisivo e lì il carisma giovanile, l’eleganza e la raffinatezza intellettuale di Kennedy ebbero la meglio sul repubblicano Nixon. I Kennedy costruirono una formidabile macchina elettorale, mettendo in campo le acute doti di stratega di Bob, fratello minore di John, e soprattutto il ricco conto in banca di famiglia. Kennedy dovette difendersi dalle accuse mosse contro la sua religione da quanti, in un Paese a maggioranza protestante, non riuscivano ad immaginare un presidente cattolico: facendo appello alla tolleranza religiosa degli americani, affermò la netta separazione fra Stato e Chiesa e assicurò che con lui alla Casa Bianca non ci sarebbe stata alcuna sottomissione a Roma. Kennedy si aggiudicò inoltre il sostegno degli afroamericani facendo una telefonata di solidarietà alla moglie di Martin Luther King, mentre il marito era detenuto ad Atlanta. Nonostante il grande entusiasmo che il senatore del Massachusetts aveva saputo suscitare, la vittoria dei Democratici fu risicatissima. Non mancò chi puntò il dito contro il ruolo determinante che il potere economico della famiglia e alcune conoscenze non proprio rispettabili avevano avuto nell’esito del voto.
A quarantatre anni Kennedy era il presidente eletto più giovane della storia americana (Theodore Roosevelt aveva un anno di meno quando era entrato alla Casa Bianca subentrando al defunto McKinley) e si preparava a guidare la nazione verso quella “nuova frontiera” che aveva indicato, sia pure in termini piuttosto vaghi, durante la campagna elettorale. Ansioso di presentarsi come l’alfiere di “una nuova generazione di leader” e come il portavoce delle esigenze di rinnovamento della gioventù, riempì la sua amministrazione di facce nuove della politica: suo fratello Bob divenne ministro della Giustizia e si impegnò in una lotta senza quartiere alla mafia; il giovane e brillante Robert McNamara, presidente della Ford Motor Company, fu destinato alla Difesa. Portò inoltre alla Casa Bianca la first lady più giovane del XX secolo, Jacqueline Lee Bouvier, che con la sua eleganza diede un ulteriore tocco di classe alla presidenza. Gran parte delle scelte di Kennedy si rivelarono però poco più che operazioni di immagine, giacché nei fatti la sua politica non parve differenziarsi molto rispetto a quella dei predecessori. Continuò la “corsa spaziale” inaugurata da Eisenhower destinando un budget sempre maggiore alla missione Apollo, quella che alcuni anni dopo, il 20 luglio 1969, porterà il primo uomo sulla Luna. Anche il progetto di un attacco al regime castrista sull’isola di Cuba, elaborato dal suo predecessore repubblicano, trovò attuazione sotto la presidenza Kennedy: nell’aprile 1961, lo sbarco di esuli cubani alla Baia dei Porci, sostenuto dagli USA, si risolse in un clamoroso fiasco e i rapporti col blocco comunista tornarono a raffreddarsi. Di lì alla crisi missilistica del 1962 il passo era breve: l’installazione di basi sovietiche a Cuba, con missili balistici puntati sul continente americano, segnò un momento di acutissima tensione fra le due potenze e una guerra nucleare sembrava alle porte. Soltanto l’atteggiamento cauto del presidente, il suo rifiuto di procedere ad un’invasione dell’isola e l’ascolto che egli da cattolico diede ai ripetuti appelli di pace di papa Giovanni XXIII riuscirono ad evitare il peggio. Le basi furono smantellate e si inaugurò nuovamente una fase di dialogo fra USA e URSS, rappresentata significativamente dalla creazione di una “linea rossa” che collegava i telefoni della Casa Bianca e del Cremlino per facilitare la comunicazione in tempi di crisi. Nondimeno, Kennedy decise di offrire aiuti alle forze che in Vietnam del Sud contrastavano l’espansione comunista dando di fatto inizio, anche contro le sue intenzioni, alla spirale di eventi che, sotto un’altra presidenza, porteranno all’atroce bagno di sangue del Vietnam. Sul fronte interno, il piano di interventi sociali della “nuova frontiera” (immaginato come un ideale proseguimento del “nuovo corso” rooseveltiano) diede ben pochi effetti, anche a causa della strenua opposizione dei Repubblicani in Congresso: le proposte del presidente per la lotta alla povertà, l’assistenza agli anziani, l’istruzione furono tutte respinte. Nonostante l’immagine di paladino dei diritti civili con cui Kennedy è passato alla storia, anche sul piano dell’emancipazione dei neri l’azione del governo fu piuttosto inefficace (molto di più farà il fratello Bob, prima di finire ucciso nel 1968, lo stesso anno di Martin Luther King). Timoroso di giocarsi la rielezione con una clamorosa proposta di legge sui diritti civili, Kennedy preferì procedere con cautela promuovendo l’uguaglianza razziale attraverso la nomina di molti afroamericani in posizioni di prestigio. Nel complesso, i due anni di Kennedy alla Casa Bianca furono più pieni di promesse che di concrete realizzazioni. Nella speranza di ottenere una maggioranza più forte alle elezioni del 1964 per dare attuazione al suo programma, Kennedy intraprese, già alla fine del 1963, un tour di comizi negli stati del Sud. Proprio il Sud, tuttavia, da sempre ostile al sofisticato uomo politico del New England, sarebbe stato la sua tomba. Non è facile immaginare come sarebbero andate le cose se fosse rimasto alla Casa Bianca per altri quattro anni. Le tensioni che durante il suo mandato avevano cominciato a rivelarsi (la lotta per l’emancipazione dei neri, i primi passi verso l’intervento americano in Vietnam) erano destinate ad esplodere in tutta la loro forza negli anni successivi e resterà un mistero, uno fra i tanti, come Kennedy le avrebbe affrontate. Certo è che, in anni difficili come quelli della prima Guerra Fredda, Kennedy seppe rappresentare un importante simbolo di speranza per il suo Paese e per tutto l’Occidente.
P.S. Mi sia consentito un appunto di carattere personale. A tredici anni John F. Kennedy era il mio presidente preferito. Come chiunque si accosti alla sua figura per la prima volta, ero rimasto affascinato da quell’intreccio di energia giovanile, eleganza intellettuale e carisma politico che gli dava un’aria decisamente “diversa” rispetto alla maggior parte dei suoi predecessori e successori. La fitta rete di misteri, le terribili tragedie, le grandezze e le miserie che hanno scandito la saga dei Kennedy mi avvincevano come una trama gialla e ricordo l’interesse con cui lessi il mio primo libro “importante”, un voluminoso saggio di Gianni Bisiach dal titolo “I Kennedy. La dinastia che ha segnato un secolo” (ed. Newton & Compton). A quel libro sono debitore anche per alcuni contenuti di questo articolo.