di Gianmarco Botti
“Nessuna orazione commemorativa o più eloquente elogio
potrebbe onorare la memoria del presidente Kennedy
che il passaggio, prima possibile,
della proposta di legge per i diritti civili
per i quali ha combattuto così a lungo”
Il 22 novembre 1963 un’America distrutta dal dolore per la perdita del suo presidente più amato dovette realizzare che la “nuova frontiera” non era stata raggiunta, e che forse non sarebbe stata raggiunta mai. Era la fine di un sogno: svanite in un attimo tutte le speranze della stagione kennediana, gli americani tornarono a guardare in faccia la dura realtà. La dura realtà si chiamava Lyndon Baines Johnson. Il suo giuramento, immortalato nella celebre foto a bordo dell’Air Force One, resta uno dei passaggi più traumatici della storia americana. Erano trascorse appena due ore dall’attentato e la vedova Kennedy aveva ancora indosso gli abiti sporchi del sangue del marito. A chi aveva amato l’uomo e il presidente Kennedy e ora ne venerava la leggenda, Johnson non poteva piacere. Diversamente da JFK, non era né giovane, né bello, né elegante. La sua immagine pubblica, i suoi modi, la sua cultura non erano quelli di un rampollo di buona famiglia della East Coast, ma di un figlio del Sud, nato e cresciuto nella campagna povera del Texas. Descritto dai detrattori come una sorta di cowboy rozzo e ignorante, era stato scelto per affiancare Kennedy alle elezioni del 1960 con lo scopo di intercettare il voto della popolazione bianca del Sud, a cui il giovane senatore del Massachusetts non era mai andato a genio. Ora che proprio al Sud (e proprio in Texas!) la parabola kennediana si era tragicamente conclusa, su Johnson gravava una pesante coltre di diffidenza, e molti fra i più devoti seguaci di JFK consideravano la sua presenza alla Casa Bianca quasi un’usurpazione. Ma non era facile mettere nell’angolo un tipo come Johnson. Uomo dal carattere indomito, duro e orgoglioso, con tendenze vagamente autoritarie, era pronto a usare ogni mezzo per consolidare la sua leadership. La spiccata capacità di persuasione e contrattazione politica che aveva maturato come capogruppo dell’opposizione democratica in Senato negli anni di Eisenhower e l’approfondita conoscenza dei meccanismi di Washington acquisita da vicepresidente, lo misero in grado di esercitare un fermo controllo sul Congresso e ottenere l’approvazione delle sue proposte. Teneva contatti diretti con ogni singolo parlamentare e non disdegnava di esercitare pressioni personali per assicurarsene il voto. L’efficacia del “metodo Johnson”, per quanto questo fosse discutibile, si vide già nel suo primo anno di presidenza. In tempi record il presidente riuscì ad ottenere una drastica riduzione delle tasse, che fece da volano per la ripresa economica, una nuova legge sui trasporti pubblici e una sull’istruzione universitaria. Più lungo e travagliato fu l’iter della legge sui diritti civili: un ostruzionismo intransigente, portato avanti dalla componente sudista trasversale ad entrambi i partiti, rischiava di bloccarne definitivamente l’approvazione. Johnson, che a dispetto delle sue radici texane teneva molto a questa legge, lavorò in prima persona per vincere le opposizioni e, con un brillante stratagemma retorico, ricordò più volte al Congresso quanto JFK si fosse impegnato per farla approvare.
Alla fine, il Congresso dovette cedere. Il 2 luglio 1964, sotto gli occhi dell’intera nazione e alla presenza del leader degli afroamericani Martin Luther King, il presidente firmò il Civil Rights Act. Era di gran lunga il provvedimento più rivoluzionario in materia di diritti civili dai tempi di Lincoln: veniva proibita la discriminazione razziale presso ristoranti, alberghi e teatri e autorizzato il trattenimento dei fondi federali agli enti che avessero trasgredito; la fine della segregazione nelle scuole veniva accelerata e si istituiva una commissione incaricata di contrastare la discriminazione su base razziale, sessuale e religiosa sul posto di lavoro. Per la prima volta dei neri furono chiamati a ricoprire gli incarichi di ministro e giudice della Corte Suprema. Le nomine di Johnson alla Corte Suprema favorirono una trasformazione del codice penale in senso liberale, con la promulgazione di sentenze che punivano la segregazione razziale, difendevano le libertà individuali e affermavano la completa separazione fra Stato e Chiesa. Lo scontro con l’America conservatrice era inevitabile. Alle elezioni del 1964 i Repubblicani contrapposero al presidente uscente un ricchissimo senatore dell’Arizona di nome Barry Goldwater, leader dell’estrema destra del partito. Non fu difficile per Johnson dipingere l’avversario come un ottuso reazionario e presentarsi davanti agli americani come il candidato della moderazione e della concordia nazionale. Confermato in carica da una vittoria travolgente, ora il presidente aveva il consenso necessario per proseguire sulla strada delle riforme. Quella che egli intendeva costruire era una “Grande Società” aperta ed inclusiva, dove ci fossero libertà e giustizia per tutti e dove lo stato operasse per ridurre le disuguaglianze. Concretamente si trattava di dare attuazione ai provvedimenti della “nuova frontiera” annunciata da Kennedy, gran parte dei quali era da anni arenata in Congresso per l’opposizione dei Repubblicani. Anche stavolta la tenacia e il pragmatismo di Johnson misero a segno importanti risultati: con l’Economic Opportunity Act fu stanziato un miliardo di dollari per l’avviamento professionale dei disoccupati e l’istruzione dei bambini poveri; il Medicare Act e il Medicaid Act garantirono l’assistenza ospedaliera agli anziani e agli indigenti e segnarono un importante passo avanti verso una riforma del sistema sanitario (quella che poi è stata realizzata da Obama); la tassa sul voto, principale ostacolo alla partecipazione dei neri alla vita politica, fu abolita con il Voting Rights Act. Il presidente che aveva dichiarato una “guerra senza quartiere contro la povertà” sarebbe stato ricordato come il leader progressista più importante dai tempi di Roosevelt, il padre di un nuovo New Deal che ha trasformato la società americana in senso più giusto e solidale, se non fosse intervenuta un’altra guerra, di ben più vasta portata, a mettere in dubbio la sua credibilità. Il coinvolgimento nel Vietnam, già iniziato sotto l’amministrazione Kennedy, fu la rovina di Johnson. La sua decisione di aumentare a dismisura il contingente americano per abbattere la resistenza dei vietcong comportò un incredibile aumento delle spese militari, mettendo a rischio gli importanti risultati ottenuti dal governo in campo economico e sociale. Le immagini degli atroci massacri compiuti dagli americani, la devastazione dei villaggi, l’uccisione dei civili per mezzo di bombardamenti a tappeto e dell’uso del napalm, inorridirono l’opinione pubblica del mondo intero. Mentre la sinistra e i giovani, che erano stati i principali supporter del presidente nelle sue battaglie interne, scendevano in piazza per protestare, la popolarità di Johnson colava a picco. Ormai per il suo partito egli era soltanto un peso. Una nuova corrente, nata dall’opposizione alla guerra e raccolta intorno alla leadership carismatica di Bob Kennedy, stava emergendo. In vista delle elezioni del 1968 Johnson annunciò che non si sarebbe ricandidato e si ritirò nel suo ranch a San Antonio, in Texas, dove morì quattro anni più tardi. In pochi sentirono la mancanza di questo presidente così difficile da amare, così lontano per storia personale e modo di essere dall’immagine eroica di JFK. Non è mai facile subentrare a una leggenda. Come l’altro Johnson, a cui era toccato di succedere al grande Lincoln, egli rimase sempre all’ombra del suo predecessore. Eppure, LBJ non fu in alcun modo un “erede mancato”. Le conquiste sociali della sua amministrazione rappresentano la traduzione concreta del sogno kennediano e sono ancora oggi patrimonio di tutti gli americani.