Apprendere la morte dell’ambasciatore americano Chris Stevens – e degli altri tre uomini con lui – è stato, tra l’11 e il 12 settembre (date emblematiche per l’America), un vero e proprio trauma per chi credeva in quella tanto attesa “primavera araba”, dove sembrava finalmente messo alle strette il potere dispotico e tirannico nelle regioni musulmane.
E invece, il presidente del nuovo parlamento libico Mohamed el Magaryef, è stato costretto dai fatti a chiedere scusa agli USA e a sottolineare la distinzione e la più ovvia esistenza di gruppi “che hanno un’agenda un po’ diversa da quella del popolo libico. Noi vogliamo – aggiunge – democrazia, prosperità e sicurezza. Loro vogliono il terrore”.
Gli avvenimenti delle ultime due settimane, oltretutto, ripropongono una questione vecchia quanto vecchia è l’umanità: il rapporto tra oppressore e oppresso, tra potenze in scontro tra loro, tra i “contrari” in conflitto l’uno contro l’altro, sono – possiamo dire con una generale approssimazione – la trama che si intreccia e muove il corso della nostra storia. Sfuggire al nostro bruto destino sarebbe impossibile; ma controllarlo in un buon uso del (più laico che altro) libero arbitrio, è un’impresa meno ardua e assolutamente virtuosa.
Risulta quasi scontato sottolineare l’effimera importanza che il film blasfemo su Allah ha avuto nella vicenda, piccolo fiammifero su un pavimento di dinamite. Un film oltretutto pessimo su diversi fronti: montaggio dozzinale, regia elementare e attori che fanno gridare i fratelli Lumière dall’oltretomba.
Ma non è il film (né tantomeno le vignette sul giornale francese “Charlie Hebdo”) il problema.
Il problema, invece, giace nelle differenze intrinseche tra due diverse culture che hanno – chi per motivi religiosi, chi per un malriposto senso di superiorità sul mondo intero – un indiscusso livello di’intolleranza.
La dottrina dell’Islam prevede la totale sottomissione del fedele all’unico Dio, ovvero Allah. La parola stessa indica il rapporto di sottomissione alla divinità – che resta irraggiungibile – attraverso uno stile di vita edificato su cinque dogmi fondamentali: la professione di fede (ovvero un giuramento di sottomissione), le preghiere di ringraziamento da eseguire cinque volte al giorno, il Ramadan (digiuno da qualsiasi piacere sensibile nelle ora di luce), il pellegrinaggio alla Mecca da compiere almeno una volta nella vita, e infine l’elemosina legale.
Ed è proprio attraverso l’elemosina che possiamo configurarci – anche se molto genericamente – la dimensione del mondo musulmano, che già nel medioevo raggiunse un’estensione esorbitante: l’elemosina divenne una vera e propria fonte di ricchezza, come se fosse una tassa. Un ponte, quindi, tra la religione e l’amministrazione degli affari pubblici. Il potere politico si strinse a quello religioso divenendo un’unica identità. Di fatto, si formò una potenza incontrastabile, sia sul fronte ideologico-sociale che su quello politico-amministrativo. E non del tutto svanita è questa spaventosa forza, poiché ne restano più che semplici radici. Tutto quadra perfettamente: nulla può sfuggire al controllo dei potenti ed ogni cosa ritrova il suo posto in una gerarchia e in un’organizzazione perfetta, sia religiosa che politica.
Forse troppo arretrata (o troppo inattaccabile), però, per quanto riguarda gli standard dell’Occidente – patria dei peccatori e degli infedeli – di cui l’America è l’apice indiscusso.
Gli Stati Uniti d’America, dal canto loro, sono da quasi un secolo la più grande potenza mondiale dalla quale dipendono gli esiti di praticamente tutto il mondo.
È da dopo il primo conflitto mondiale – in seguito al quale l’Europa perse la centralità che fino a quel momento aveva avuto in tutto il corso della storia dell’umanità – infatti che l’America si poté dichiarare l’apice dell’Occidente (ruolo poi confermato dopo e durante quella che doveva essere una “guerra lampo”).
E con gli onori e i piaceri, arrivano sempre anche le responsabilità e i malumori; nel caso dell’America, malumori che avevano appartenuto all’Europa fino a qualche momento prima.
L’incredibile spirito nazionale e patriottico americano, lo stereotipo dell’uomo-fatto-da-sé – icona della massima civiltà e della possibilità di emancipazione –, la non sempre velata prepotenza e alterigia nei confronti delle altre potenze o culture, l’apparentemente nascosto desiderio di possedere le ricchezze petrolifere islamiche e la presunzione di dover liberare l’umanità dalla tirannia di una cultura “malata” e schiava dei preconcetti (soprattutto quelli religiosi) è ciò che oggi rappresenta l’America, infine patria indiscussa del capitalismo globale. Non più il sogno di libertà, né la patria della redenzione: bensì, il diavolo. O almeno è questo ciò che genericamente si pensa quando si ragiona in termini anti-americani. E nessuno più dei musulmani è contro gli USA.
Con questi presupposti, come è possibile – ci si chiede – che si possa ancora credere in una coesione e in un lavoro comune per il mantenimento e la salvaguardia del mondo? Come si può pretendere una collaborazione in un’umanità in cui la volontà di potenza (o di prepotenza) da una parte, e la rigida dottrina religiosa dall’altra, sono storicamente inconciliabili? L’intolleranza dilaga. Ma cosa vuol dire “intolleranza” sul palcoscenico del nostro tempo, ovvero della nostra contemporaneità?
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