“Se non sei capace di mentire non andrai molto lontano”
È una legge non scritta ma molte volte confermata dalla storia politica delle nazioni che, nei momenti in cui più forti sono le spinte verso il cambiamento, più intense le trasformazioni culturali e sociali, più radicale la contestazione del “sistema”, le elezioni le vinca chi promette continuità, conservazione, chi offre sicurezza. Il Sessantotto americano non fa eccezione: nell’anno in cui la lotta studentesca si saldava alla protesta anti-Vietnam e una campagna elettorale tesissima, funestata dagli assassini di Martin Luther King e di Bob Kennedy (dato per vincente alle primarie democratiche e forse l’unico che avrebbe potuto salvare il partito dalla crisi) offriva all’opinione pubblica uno spettacolo di violenza e instabilità, i Repubblicani riconquistarono la Casa Bianca. Lo fecero grazie a un programma fondato sulle parole chiave “Law and Order” e a un candidato dal profilo sinceramente conservatore: Richard Nixon, il delfino di Eisenhower, già battuto da JFK nel 1960 per un risicatissimo 0.1%, era l’uomo di cui la destra aveva bisogno per chiudere definitivamente la stagione della “nuova frontiera” e della “grande società” e fronteggiare le dirompenti trasformazioni sociali che questa aveva innescato. La sua vittoria segnò l’ingresso nel dibattito pubblico di quella “maggioranza silenziosa” di americani (per lo più bianchi, di ceto medio e di provincia) che vedeva nell’integrazione razziale, nelle manifestazioni pacifiste, nella rivoluzione sessuale e nel diffondersi della cultura hippie una minaccia per i valori tradizionali. Per la prima volta dai tempi del New Deal, essere definito “conservative” smetteva di essere un’offesa e il pensiero liberal perdeva la propria egemonia culturale. Quanto netta fosse la rottura con il passato divenne chiaro già dai primi passi dell’amministrazione Nixon. Il presidente smantellò gran parte dei programmi di previdenza sociale approntati da Johnson e bloccò con il diritto di veto numerose proposte di legge in materia d’istruzione e sanità. Modificò la composizione della Corte Suprema inserendo giudici di provata fede conservatrice: il nuovo Chief Justice, Warren Burger, noto per il suo pugno di ferro nei confronti dei criminali, adottò una linea di assoluta severità che non di rado portò alla violazione dei diritti degli accusati. Venne dichiarata guerra alla droga (“il nemico pubblico numero uno”, secondo Nixon) e furono contrastate con durezza, anche attraverso l’invio dell’esercito, le manifestazioni studentesche e l’occupazione delle università. In materia razziale Nixon, che considerava le rivendicazioni dei neri essenzialmente una questione di ordine pubblico, tenne un atteggiamento di “benigna negligenza”, contribuendo di fatto a rallentare il processo di integrazione. Intransigente sul piano interno, Nixon fu assai più elastico nella gestione degli affari esteri e lì ottenne alcuni importanti risultati. La sua fama di “mangiatore di comunisti” lo rendeva immune a ogni accusa di morbidezza nei confronti del nemico e così egli poté avviare la più ampia fase di distensione verso il mondo comunista dall’inizio della Guerra Fredda. La “Realpolitik” portata avanti dal suo abilissimo Segretario di Stato, il tedesco-americano Henry Kissinger, si basava sulla convinzione che le questioni internazionali non andassero trattate più in termini astrattamente ideologici, secondo la logica del muro contro muro, ma appunto in maniera “realistica”, tenendo conto unicamente degli interessi americani in campo. Per dare il segno di questo cambio di passo, Nixon tolse il veto degli USA all’ingresso della Repubblica Popolare Cinese nell’assemblea delle Nazioni Unite e, nel febbraio 1972, fu il primo presidente a visitare Pechino e stringere la mano a Mao Tse-tung. Un successivo viaggio a Mosca permise a Nixon di stipulare un accordo di non proliferazione nucleare con l’URSS e di instaurare rapporti di collaborazione scientifica e tecnologica fra le due potenze quali mai c’erano stati prima. Nella gestione del conflitto in Vietnam, la “dottrina Nixon” si tradusse in una graduale riduzione del contingente americano e in un parallelo rafforzamento dell’esercito sudvietnamita che, nelle intenzioni del presidente, doveva metterlo in grado di continuare da solo la guerra contro il Nord. Il proseguimento degli attacchi aerei alle basi comuniste e il tentativo di coinvolgere nel conflitto anche la Cambogia, rimasta fino ad allora neutrale, provocarono tuttavia una nuova ondata di proteste negli USA, la più drammatica delle quali ebbe luogo nel maggio 1970 alla Kent State University, nell’Ohio, dove la polizia uccise quattro studenti. L’opinione pubblica ne fu impressionata, ma la maggioranza degli americani stava ancora con il presidente. Lo dimostrò alle elezioni del 1972, consegnando a Nixon una vittoria di oltre venti punti percentuali sullo sfidante democratico, il senatore George McGovern, attestato su posizioni marcatamente di sinistra. Appena due mesi dopo la sua rielezione, nel gennaio 1973, il presidente ordinò il cessate il fuoco: la guerra più lunga che gli USA avevano mai combattuto, e una delle più costose in termini di perdite umane e spese militari, si chiudeva senza alcuna assicurazione sul futuro del Vietnam del Sud, che infatti di lì a poco finì per capitolare sotto le pressioni comuniste.
Quella che il presidente voleva far passare per una “pace onorevole” era in realtà un’umiliante disfatta per la prima potenza mondiale. Gli americani ci misero del tempo ad accorgersene, galvanizzati com’erano da quel senso di invincibilità che un rinvigorito spirito patriottico aveva suscitato nella società e che i grandi successi tecnologici e strategici degli ultimi anni parevano confermare (lo sbarco del primo uomo sulla Luna è del 20 luglio 1969). Allo stesso modo dovette passare del tempo perché l’opinione pubblica si rendesse conto del radicale stravolgimento degli equilibri costituzionali che era in atto sotto la presidenza Nixon. Uno stravolgimento che equivaleva ad un’estensione smisurata dei poteri presidenziali, oltre ogni limite mai raggiunto in precedenza, e che aveva dato vita a quella che lo storico Arthur Schlesinger definì “una presidenza imperiale”. Non si trattava solo di una netta preminenza dell’esecutivo sul Congresso e le sue prerogative: come il capo di una nazione in perenne stato d’emergenza, negli anni della guerra Nixon aveva esercitato un fermo controllo sulla dissidenza interna, sugli organi di stampa e sui suoi oppositori politici arrivando a servirsi di metodi palesemente illegali come lo spionaggio, le intercettazioni, l’uso indebito della CIA e dell’FBI. Già nel 1972 alcuni membri del comitato per la rielezione del presidente erano finiti in arresto per essersi introdotti nel complesso Watergate, quartier generale dei Democratici a Washington, con lo scopo di impiantare apparecchiature elettroniche d’ascolto. Le confessioni degli imputati avevano tirato in ballo il presidente in persona, che per oltre un anno si era difeso affermando la sua completa estraneità. Si era anche rifiutato, sulla base delle prerogative presidenziali, di consegnare alla commissione senatoriale che indagava sul Watergate le registrazioni di tutte le conversazioni tenutesi nel suo ufficio dal 1970 in poi. Mentre altri scandali e diversi episodi di malversazione compiuti da lui e da importanti membri dell’amministrazione venivano a galla, il Congresso chiese di incriminarlo per ostruzionismo alla giustizia e abuso di potere. Dopo una strenua resistenza, Nixon fu costretto a consegnare i nastri. Dalle registrazioni venne fuori la figura di un uomo meschino e volgare, manovratore e vendicativo, ma soprattutto di un corruttore pronto a tutto pur di insabbiare le inchieste sul Watergate, anche a mentire al suo popolo. Abbandonato da tutti i sostenitori, ormai il presidente non aveva scelta se voleva evitare l’impeachment. L’8 agosto 1974, Nixon apparve in diretta televisiva e con il volto segnato dalla tensione comunicò alla nazione di aver appena rassegnato le dimissioni. Era la prima volta in due secoli di storia che accadeva e ad oggi è rimasta l’unica. L’America ne risultò turbata ma al contempo poté essere fiera del proprio sistema costituzionale, che aveva dimostrato che anche un presidente eletto da una vastissima maggioranza poteva essere destituito se riconosciuto colpevole di gravi misfatti.