di Gianmarco Botti
“Sono ben consapevole
che non mi avete eletto come vostro presidente tramite voto,
quindi vi chiedo di confermarmi con le vostre preghiere”
A detta di molti, Gerald Ford non aveva la stoffa per fare il presidente. Da ragazzo la sua vocazione sembrava essere quella sportiva: capitano della squadra di football della sua scuola, aveva continuato l’attività agonistica anche all’Università del Michigan e solo successivamente l’aveva abbandonata per privilegiare gli studi di legge e tentare la carriera politica. Un suo accanito avversario, l’ex presidente Lyndon Johnson, diceva che Ford aveva preso troppi colpi in testa durante le partite e così non era in grado di fare due cose contemporaneamente, come camminare e masticare il chewing-gum. Ma se c’era qualcosa che tutti, avversari compresi, riconoscevano a Ford era una reputazione specchiata, una sincera integrità personale e un profondo senso dello stato testimoniato con coerenza negli anni in cui aveva guidato il gruppo dei Repubblicani alla Camera dei Rappresentanti. Non una cosa da poco in anni bui come quelli del Watergate, quando venne fuori la corruzione di larga parte del ceto politico, specialmente repubblicano. Fu così che, nell’ottobre 1973, Ford fu chiamato a prendere il posto del vicepresidente Spiro Agnew, che si era dimesso perché riconosciuto colpevole di evasione fiscale e altri raggiri. Dovevano passare pochi mesi perché anche Nixon inciampasse negli scandali che avevano travolto la sua amministrazione e Ford si trovasse a giurare come trentottesimo presidente degli Stati Uniti d’America. Primo (e fino ad oggi unico) capo dell’esecutivo non eletto né alla presidenza né alla vicepresidenza, Ford era ben consapevole dei limiti che questo comportava e assunse l’incarico con l’umiltà di chi si sentiva perennemente all’ombra dei suoi predecessori: “Io sono una Ford, non una Lincoln”, ammetteva ricorrendo a una metafora automobilistica. Proprio la sua disarmante umiltà e l’assoluta mancanza di formalismo, insieme all’aria paterna e rassicurante che emanava dalla sua figura, gli conquistarono la fiducia degli americani, in un momento in cui la credibilità della Casa Bianca era scesa a livelli bassissimi e un abisso di disaffezione si frapponeva tra i cittadini e le istituzioni. La popolarità di Ford ebbe tuttavia un brusco crollo quando, ad un mese dal suo insediamento, decise di accordare il perdono presidenziale a Richard Nixon per tutti i reati federali “che aveva compiuto o aveva potuto compiere” mentre era in carica. Nell’ottica di Ford il perdono doveva servire ad archiviare definitivamente quel “lungo incubo nazionale” che era stato il Watergate e ad avviare una fase di riconciliazione fra l’America e il suo passato. A questo scopo il presidente istituì nel 1975 una commissione senatoriale con l’incarico di indagare sui cosiddetti “sporchi trucchi” compiuti dalla CIA per uccidere capi di governo stranieri: venne fuori la realtà sconvolgente di un sistema di servizi segreti sempre pronto a destabilizzare i governi considerati nemici in tutte le latitudini, anche con l’appoggio della Casa Bianca. Ford stesso nel 1973 era stato testimone del colpo di stato che in Cile aveva portato all’uccisione di Salvador Allende e all’ascesa del generale Pinochet, con il placet di Nixon. Un’altra commissione fu incaricata di proseguire le indagini sull’assassinio di John F. Kennedy già cominciate negli anni ’60 dalla Commissione Warren, di cui Ford aveva fatto parte in qualità di leader dei Repubblicani in Congresso. L’operazione verità, che nelle intenzioni del presidente avrebbe dovuto purificare la memoria nazionale, diede tuttavia pochi risultati se non quello di far sprofondare sempre più il Paese in un acuto senso di malessere. Sconcerto per i lati più oscuri del proprio passato e sfiducia nel futuro caratterizzavano gli umori di una nazione che si avviava a celebrare senza alcun entusiasmo i suoi primi duecento anni di storia. Il quadro era reso ancora più cupo dalla profonda stagnazione in cui era piombata l’economia americana e da una disoccupazione in continuo aumento. A questi problemi Ford tentò di porre rimedio, ma lo fece nel modo sbagliato: limitandosi a ridurre le tasse e bloccando col diritto di veto diverse proposte del Congresso in materia sociale, finì per peggiorare la situazione. In politica estera Ford si pose in perfetta continuità con l’amministrazione Nixon, proseguendo il processo di distensione nei confronti dell’URSS e facendo sempre più affidamento sulla sapienza diplomatica di Henry Kissinger. Il presidente incontrò più volte il leader sovietico Brežnev e nel 1975 firmò insieme a lui e ad altri trentatré capi di governo l’accordo di Helsinki, con il quale venivano riconosciuti i nuovi confini degli stati europei e garantite la libertà di spostamento e la tutela dei diritti umani. Fallimentare fu invece il tentativo di Ford di ottenere dal Congresso l’autorizzazione per inviare aiuti militari al Vietnam del Sud, ormai prossimo a cedere all’offensiva comunista: gli americani non avevano alcuna voglia di legare ancora la propria sorte ad un’avventura internazionale che, nella percezione di tutti, era stata l’inizio della rovina. Allo scadere del mandato, Ford poteva vantare ben pochi risultati concreti e una sua candidatura alle elezioni del 1976 era tutt’altro che scontata. Il suo orientamento moderato e la nomina di numerosi esponenti progressisti in posti chiave del governo avevano messo in agitazione l’ala conservatrice del partito, che puntava a sostituirlo con il carismatico ex governatore della California, Ronald Reagan. Soltanto al termine di una competizione durissima Ford riuscì a spuntarla e dovette comunque accettare un programma che nei fatti ripudiava gran parte delle politiche della sua amministrazione. La sfida decisiva, quella con il democratico Jimmy Carter, si rivelò ancora più difficile per il presidente uscente che, nonostante tutti i suoi sforzi, non era riuscito a liberare il partito dal fantasma di Nixon e a riscattarne l’immagine davanti ad un elettorato che andava in cerca del nuovo. Le speranze di Ford di essere riconfermato si dissolsero durante l’ultimo confronto televisivo fra i due candidati, quando il presidente incorse in una clamorosa gaffe: alla domanda del moderatore circa l’influenza esercitata dall’URSS nel Vecchio Continente, Ford rispose che “non c’è nessuna dominazione sovietica sull’Europa Orientale, e mai ci sarà sotto un’amministrazione Ford”. Sulla sala piombò il gelo, a nulla valsero i tentativi di aggiustare il tiro, ormai la partita era persa. Ford, l’“accidental president”, che aveva ottenuto la presidenza senza averla cercata, lasciò la Casa Bianca senza grandi rimpianti. Usciva così di scena l’ultimo dei presidenti repubblicani vecchia maniera: dopo di lui la destra americana andrà incontro a una profonda trasformazione che vedrà la componente radicale e ideologica prevalere sempre più su quella moderata e pragmatica.