di Gianmarco Botti
È stata la sera in cui i Numeri Due si sono trasformati in Numeri Uno. Mai prima d’ora il confronto televisivo fra gli aspiranti vicepresidenti era stato così atteso e temuto, a seconda delle parti. Atteso dal vicepresidente uscente Joe Biden, su cui gravava il compito di rimediare alla modesta figura di un Barack Obama tremendamente passivo nel primo dibattito con lo sfidante Mitt Romney e riportare su nei sondaggi il ticket democratico. Temuto da Paul Ryan, la giovane promessa del GOP, che per una sera ha dovuto deporre la sua appassionata retorica conservatrice e proseguire sulla linea moderata inaugurata da Romney con lo scopo di conquistare gli indecisi e l’elettorato indipendente. Ne è scaturito un confronto alla rovescia, con Ryan sulla difensiva a schivare i colpi di un Biden aggressivo come non mai, una sfida entusiasmante, molto più di quanto normalmente ci si aspetta dalla contesa per il posto di “vice”. Per alcuni analisti è stato un pareggio, per altri la partita si è chiusa con una netta affermazione del vicepresidente uscente. Proviamo a vederci più chiaro.
L’uscente – Biden for president
Obama glielo aveva detto: Joe, adesso tutto dipende da te. E il vecchio “leone del Delaware” non ci ha pensato un attimo prima di sfoderare gli artigli contro quello che, davanti alla sua spietata aggressività, appariva quasi un bambino inerme. Paul Ryan aveva appena due anni quando Joe Biden entrò in Senato. Da allora non ne è mai più uscito e in una carriera quarantennale ha maturato un’esperienza politica che in pochi possono vantare nei palazzi di Washington. Ecco perché il giovane e “inesperto” Barack Obama lo volle accanto a sé quattro anni fa ed ecco perché adesso ha puntato su di lui per tirare dritto verso la vittoria. Abile polemista, oratore di razza purissima, con una leggera tendenza alla gaffe, nel confronto televisivo Biden non si è fatto scappare neppure una parola di troppo ed è riuscito a rimediare a tutti gli errori compiuti dal presidente nel duello del 3 ottobre.
Tanto Obama si è mostrato lento ed esitante nel difendere i meriti della sua amministrazione, quanto Biden è stato deciso nel sostenere che niente di meglio poteva esser fatto in questi quattro anni: la bontà della riforma sanitaria, il sostegno all’industria automobilistica, gli importanti risultati ottenuti nelle relazioni con le grandi potenze di Russia e Cina, sono i “fatti” che il vicepresidente in carica ha sbattuto in faccia al rivale che accusava i Democratici di essere bravi solo a parole. A bunch of malarkey, letteralmente “un cumulo di balle”, è la sentenza sprezzante con cui Biden ha etichettato le obiezioni di Ryan alla politica obamiana. La domanda di politica estera, cavallo di battaglia di un veterano della Commissione Esteri del Senato come Biden, gli ha offerto l’occasione di mettere in seria difficoltà l’avversario, che non ha nessuna preparazione specifica sull’argomento. Il democratico ha cominciato pressappoco così: abbiamo portato i nostri soldati fuori dall’Iraq come avevamo promesso, e nel 2014 ci ritireremo anche dall’Afghanistan, ora che gli afghani sono in condizione di continuare da soli la guerra contro i Talebani. Quanto allo spauracchio della bomba atomica iraniana, sovente agitato dai Repubblicani per evidenziare la debolezza di Obama nei confronti di Ahmadinejad, Biden ha assicurato che l’Iran è ben lontano dall’averla confezionata, e ha rivendicato la durezza delle sanzioni inflitte al paese degli ayatollah. “Volete andare in guerra? È questo che volete?”, ha ripetuto incalzando il suo rivale e puntando il dito contro le arcinote tendenze guerrafondaie dei Repubblicani.
Se Obama è stato, per sua stessa ammissione, “troppo educato” nel non girare il dito nella profondissima piaga degli errori di Romney, Biden non ha avuto peli sulla lingua: nel suo appello finale agli elettori ha tirato fuori l’infelicissima uscita del candidato repubblicano in merito a quel 47 per cento di americani che vivrebbero sulle spalle dello stato assistenzialista e che per questo voterebbero Obama; una tattica vincente, che ha ricordato ad un elettorato forse un po’ troppo smemorato quella caduta di stile che appena poche settimane fa sembrava aver posto fine alla corsa presidenziale di Romney.
Biden non ha trascurato neppure gli aspetti apparentemente secondari del dibattito, quel body language che, lungi dall’essere soltanto forma, nella ripresa televisiva diviene sostanza: se dieci giorni fa Obama si è presentato stanco, nervoso, quasi “addormentato” (colpa dell’altitudine del Colorado, hanno malignato alcuni), questo tenace settantenne si è esibito in un formidabile spettacolo di gesti, sguardi, battute e risatine che hanno avuto l’effetto di mettere in ridicolo il giovane Ryan. Sembrava di vedere, a parti invertite, quel brillante istrione di Reagan mentre smonta col suo humour hollywoodiano le lunghe e pedanti tirate del democratico Jimmy Carter. Voto 10 e lode. E a ripensare a Reagan e ai suoi settant’anni magnificamente portati al momento dell’elezione, viene quasi da chiedersi: che ci sia posto per Joe Biden alla Casa Bianca nel 2016?
Lo sfidante – Salvate il soldato Ryan
Davanti alla prova brillante del vicepresidente in carica, il luccichio della stella nascente dei Repubblicani quasi non si è visto. Sembrava che Biden fosse all’opposizione e Ryan al governo, sempre impegnato a difendersi dai colpi sferrati al Partito Repubblicano e alle idee di Romney dalla formidabile vis polemica dell’avversario. La sua è stata una fuga, dalle domande dell’intervistatrice (che per lo più ha svicolato) e dai pungenti attacchi di Biden. Per il resto è stato tutto un grande sfoggio di maniere cortesi e prove d’umiltà, il solo atteggiamento possibile per un ragazzo che sia consapevole di non poter competere con la soverchiante autorevolezza dell’uomo anziano: “Ringrazio Joe per l’onore che mi ha dato prendendo parte a questo dibattito”, è stata la sua educatissima, quasi servile conclusione. Non che i calci non li abbia tirati il giovane Ryan, dritti negli stinchi di Barack Obama, che ha accusato di essere colpevole della perdita di migliaia di posti di lavoro, di dimostrarsi debole nei rapporti internazionali, specie con l’Iran, e di aver ingannato gli americani con le sue promesse di “change” e “hope”. Tuttavia era poca roba, di fronte ai duri affondi del suo interlocutore. L’inferiorità di Ryan si è rivelata terribilmente quando si è discusso di politica estera: voi tagliate i fondi alla difesa, voi volete rendere l’America più debole di fronte ai suoi nemici, ha detto, seguendo il leitmotiv della campagna repubblicana. A questi slogan triti e ritriti, neppure Ryan è riuscito a dare un tocco di giovinezza e originalità. Neanche quando si è passati all’economia, campo a lui più congeniale, ha saputo trionfare: la sua ricetta ultraliberista, mutuata dal pensiero della filosofa russo-americana Ayn Rand, molto in voga fra i conservatori, ha dovuto necessariamente essere ammorbidita e anche un po’ annacquata in una performance televisiva che aveva lo scopo di intercettare il voto dei centristi. L’inno sempreverde al taglio delle tasse, niente meno che del 20 per cento nella proposta del duo Romney-Ryan, si è infranto contro lo sprezzante disincanto di Biden, che ha definito un progetto del genere “matematicamente impossibile”. Un momento interessante è stato quello della domanda sull’aborto, immancabile in tutte le campagne elettorali e particolarmente atteso nel confronto fra due candidati di fede cattolica. Mentre Biden sentenziava che la scelta spetta solo alle donne e non ai politici, Ryan ha cercato di mettersi in sintonia con gli umori dell’elettorato cristiano conservatore (evangelico ancor più che cattolico), raccontando la tenera storia della prima gravidanza di sua moglie: fu la visione di sua figlia attraverso l’ecografia a convincerlo che quella sorta di “fagiolino” era un essere umano fin dall’attimo del concepimento e in questo religione e scienza si trovano d’accordo; la futura amministrazione repubblicana si dichiarerà pertanto contraria all’aborto in tutti i casi, tranne che in presenza di incesto, stupro o rischi per la salute della madre. Un singolare compromesso con cui Ryan ha cercato di guadagnare almeno un po’ dell’elettorato femminile, da sempre molto diffidente nei confronti di Romney e del suo atteggiamento da flip flop sui temi etici che lo ha portato, nel corso degli anni, a passare con grande destrezza dalle opposte posizioni di pro-choice e pro-life e ritorno. Nel complesso, Ryan, sebbene giovane e telegenico, non è riuscito a comunicare la stessa sicurezza del suo avversario e, se i segnali del corpo vogliono dire qualcosa, ha rivelato un certo nervosismo portando troppe volte il bicchiere alla bocca per bere. Voto cinque e mezzo, niente di che, ma con margini di miglioramento. Chissà cosa ne avranno pensato i milioni di elettori repubblicani che fin dall’inizio hanno visto in questo quarantenne deputato del Wisconsin di solide idee conservatrici il futuro del GOP. Qualcuno aveva anche immaginato, in un futuro non troppo remoto, una corsa di Ryan per la Casa Bianca. Quel che è certo è che per ora Ryan ha da correre ancora parecchio.
USA 1988, sfida per la vicepresidenza: si fronteggiano il democratico Lloyd Bentsen e il repubblicano Dan Quayle. Anche allora il più anziano e preparato Bentsen usò un’ironia sferzante contro il giovane e inesperto avversario, che si era paragonato addirittura a Jack Kennedy. Alla fine Quayle, in tandem con Bush padre, ottenne la vittoria, ma questo passaggio è rimasto uno dei più memorabili nella storia dei dibattiti presidenziali. Joe Biden doveva tenerlo a mente quando, davanti a Paul Ryan che citava JFK, lo ha incalzato: “Ah, e tu saresti Jack Kennedy?”