Non è bello vivere nella nostalgia; è un modo di prendere e interpretare le cose che ti lascia sempre un pizzico di amaro in bocca. Ci si diverte a rispolverare vecchie foto, cercare gioia e sorrisi nel ricordare immagini o luoghi lontani, ma in realtà così facendo si scopre soltanto di aver perso qualcosa: una parte di noi che, seppur non necessariamente indispensabile, ci obbliga a riaprire quei cassetti della memoria mai chiusi o sigillati definitivamente.
Con la musica, questo accade praticamente ogni giorno: basta sentire le radio, assistere a show televisivi, o anche solo discutere al bar, e ci si accorge che alla fine il discorso ricade sempre sui soliti nomi, morti da anni e già in via di decomposizione, i quali occupano un posto insostituibile nelle play-list dei nostri iPod. Ma perché accade tutto questo? Perché non riusciamo a liberarcene del tutto di questi ricordi?
In maniera particolare, la musica di cui proprio non riusciamo a sbarazzarci è quella sorta a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta: siamo così dipendenti da quella fase artistica, che non c’è neanche bisogno di citare le band che hanno segnato l’evoluzione musicale di quel periodo. Il motivo di tutto questo, però, ce lo fornisce quel movimento (o forse moda, ognuno trovi la definizione più adeguata) che sul finire degli anni Settanta sconvolse gran parte del panorama artistico occidentale: faccio naturalmente riferimento al Punk. In un momento di sosta, di assopimento, di abbandono degli schemi cattivi e rigidi che avevano caratterizzato il “miglior” Rock and Roll, i Sex Pistols (tanto per concedere un nome in funzione di riferimento) cominciano a urlare e fare confusione con le loro chitarre e le loro voci: in altre parole, si ribellano. Non è una ribellione violenta, o un attentato sovversivo agli ordini nazionali, ma qualcosa di diverso, qualcosa che fondandosi sulla percezione di una certa esigenza, o forse di un certo disagio, viene esternato picchiando duro su palcoscenici ben visibili a tutti.
Fino a qualche mese fa, seguendo una tendenza che ormai continuava a svilupparsi già da un paio di decenni, ci si chiedeva se quella musica sincera, priva di bavagli e censure, sarebbe tornata a farsi ascoltare o se, invece, si era definitivamente esaurita con l’avvento degli anni Ottanta, che pure, attenzione, qualcosa di alternativo l’hanno creato (vedi il Grunge, per esempio). Insomma, il Rock and Roll veniva dato per spacciato. Oggi invece, facendo riferimento ad eventi e parole che provengono dal mondo musicale, siamo costretti a ricrederci, e a poter sperare in una sorta di “rinascita”.
La vicenda che ispira quest’articolo e questa riflessione è avvenuta nella Russia di Putin, in quel paese, a volte lontanissimo e altre volte troppo vicino, che sembra negare quei principi democratici apparentemente consolidati nel mondo occidentale: si sta parlando delle Pussy Riot, la punk band criticata e condannata a due anni di reclusione per aver cantato una canzone di protesta in un luogo religioso. In qualche modo, questo sembra ricordare, insieme alle tante proteste di Indignati e lavoratori in generale, quegli anni che ispirarono la nascita della musica che per alcuni è ancora l’unica a contare. Se vogliamo credere nella ciclicità della storia, è come se quel clima di insofferenza verso le istituzioni, di esigenza di cambiamenti, stia ricominciando a farsi sentire: nelle parole e nelle affermazioni di personaggi come Madonna, i Muse, gli Afterhours e tanti altri che si sono esposti a sostegno di queste ragazze punk, sembra ascoltare gli stessi sentimenti che ispirarono la musica che va dai Beatles ai Clash.
Forse è solo un presentimento, o forse una inutile speranza a sua volta dettata dalla solita nostalgia: ma probabilmente il Rock and Roll sta per tornare a farsi sentire nella sua componente più genuina, non necessariamente grezza e cattiva, ma probabilmente in maniera sincera, superando quelli schemi ormai poco convinventi.
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