Non è la prima volta che il Comitato di Oslo decide di assegnare il Nobel per la Pace ad un’istituzione, piuttosto che a una persona fisica. In passato sono state insignite del prestigioso riconoscimento, fra le altre, la Croce Rossa Internazionale, l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, l’Unicef, Amnesty International e Medici senza frontiere. Quest’anno è stato il turno dell’Unione Europea, premiata, come si legge nel comunicato ufficiale, “per i suoi sforzi per l’avanzamento della pace, della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani”. Un riconoscimento che arriva nel momento forse più difficile per le istituzioni europee fin dalla loro fondazione e che per certi versi ha quasi il sapore dell’ironia: mai prima d’ora l’unità europea e la sua capacità di garantire la pace era stata così fragile, quasi sul punto di spezzarsi definitivamente sotto i colpi di una crisi economica che è sempre più crisi politica; mai prima d’ora gli organi supremi dell’Ue erano stati oggetto di contestazioni così violente, che non provengono più soltanto dal campo tradizionale degli euroscettici di tutte le risme, ma dal ventre vivo del popolo, anzi, dei popoli che si vedono sempre più privati della loro sovranità e del loro diritto di autodeterminazione, sacrificati all’altare dell’austerità e del rigore di bilancio. Non c’è ombra di pace e riconciliazione nelle terribili immagini che ogni giorno arrivano dalle piazze dei Paesi più colpiti dalla crisi, Grecia in primis; e ad avviso di molti la stessa parola “democrazia” risulta totalmente svuotata di senso nel momento in cui i governi nazionali, eletti o meno, sono costretti a tassare e tagliare servizi essenziali per i cittadini perché “ce lo chiede l’Europa”. Che senso può avere, in uno scenario del genere, assegnare il Nobel per la Pace all’Unione Europea? Le decine di giovani che, nelle stesse ore in cui ad Oslo veniva annunciato il vincitore, cingevano d’assedio la sede Ue di Roma e strappavano la bandiera europea sembrano non saperlo. Anche chi scrive queste parole fatica a rispondere quando si guarda intorno e vede un’Europa che è tutto fuorché pacificata, dilaniata dalle tendenze egoistiche di nazioni, come la Germania, che pretendono di essere il perno di un’unità che ha sempre più l’aspetto di una sottomissione economico-culturale alla potenza egemone; e allora, verrebbe da dire, ben vengano le bandiere strappate, forse solo queste possono esprimere appieno la lacerazione dell’Europa nell’era degli spread.
Eppure, almeno in parte, il problema è spesso di natura anagrafica. Chi è nato dopo il crollo dell’ultimo grande muro dell’età contemporanea, chi non ha conosciuto nessuna cortina di ferro e nessuna guerra, né fredda né tantomeno calda, forse non riesce a rendersi conto di cosa significhino davvero quegli “oltre sei decenni” di pace di cui parla il comunicato di Oslo. Semplicemente perché non si ha veramente idea di cosa ci fosse prima. Siamo cresciuti nel mito kantiano di una “pace perpetua”, indistruttibile e irrevocabile, lontani dagli spettri del Novecento che hanno insanguinato l’Europa, convinti che la guerra sia una roba da Terzo Mondo, che noi europei possiamo solo guardare da lontano, con un malcelato senso di superiorità morale e civile. Per noi la pace in Occidente e in Europa è un dato di fatto, qualcosa di scontato, di stabilito una volta e per tutte, e non il frutto di un difficile percorso niente affatto privo di contraddizioni e rischi di involuzione. Conosciamo tutti la storia del secolo scorso, ma nel profondo non crediamo che si possa ripetere. Al di là dei cartelloni satirici che la dipingono con i baffetti, non ci sogneremmo mai di immaginare per la Merkel un ruolo simile a quello che fu di Hitler nell’Europa degli anni Trenta e Quaranta, né quasi ci riesce di pensare che il Fuhrer e Frau Angela hanno occupato la stessa poltrona. Siamo figli dell’11 settembre, cresciuti con la paura del terrorismo islamico inteso il prodotto di una cultura antitetica alla nostra, un corpo estraneo che viene da lontano e di tanto in tanto si insinua nelle pieghe della nostra società per colpirla; ma non guarderemmo mai con sospetto ai nostri fratelli d’Occidente, mai ci rappresenteremmo un conflitto combattuto sul nostro suolo fra stati sovrani e democratici. Da questo sonno rassicurante e auto-illusorio, proprio di una generazione che si crede quella della “fine della Storia”, ci risvegliano i drammatici fatti di questi tempi. Il grido d’allarme del premier greco Samaras, che alla Cancelliera in visita ad Atene ha presentato un Paese ad un passo dalla catastrofe democratica, così simile a quella Repubblica di Weimar il cui crollo fu il preludio del trionfo nazionalsocialista, ricorda che la storia può ripetersi eccome. Proprio il momento di massima debolezza dell’Europa, in cui vengono in luce i limiti di un’unità costruita sulla moneta ma non su una visione economica e politica comune, rivela cosa sarebbe accaduto in questi sessant’anni senza l’Unione Europea, cosa in effetti è già accaduto prima della sua fondazione e cosa purtroppo può sempre ancora accadere. Sessant’anni di pace sul continente (con la sola eccezione, drammatica ma per sua natura estremamente diversa dagli altri conflitti novecenteschi, delle guerre balcaniche negli anni Novanta) sono stati possibili solo grazie ad un’istituzione che, lungi dall’eliminare tutti i conflitti, li ha tuttavia trasposti su un piano diverso, quello della politica: rovesciando il vecchio adagio del barone von Clausewitz, si può dire che la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi, e che quindi se essa non è in grado di annullare le tensioni, tuttavia le risolve nella forma delle relazioni diplomatiche, dei rapporti economici e di un dialogo costante fra Paesi che ripudiano la guerra come strumento di risoluzione delle divergenze. In questo senso, il Nobel per la Pace all’Unione Europea non poteva arrivare in un momento migliore. Ricorda ad ogni cittadino il ruolo fondamentale di custode della pace che la comunità europea ha ricoperto in questi decenni, mette sotto accusa il presente e gli errori che si stanno compiendo nell’affrontare la crisi economica, e soprattutto carica sulle spalle dei governanti una gravissima responsabilità per l’avvenire: se è vero che la crisi non si risolve “liberandosi” dell’Europa, come gridano a gran voce le forze populiste e antieuropeiste di ogni dove, ma con più Europa, allora è chiaro che si rende necessario costruire un’Europa diversa. Un’Europa più partecipata, di cui ognuno senta l’importanza di far parte, perché davanti ad episodi come quello di Roma vale la pena di tenere a mente che un’Europa senza giovani che credono in essa non ha futuro. L’Unione Europea come progetto da costruire, più che come patrimonio da preservare. E se la scelta di Oslo vuole essere un riconoscimento per quel che l’Ue ha fatto nei suoi primi sessant’anni di vita, è bene considerarla ancor più come un impegno per quel che le toccherà fare negli anni che ci attendono.
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