di Gianmarco Botti
“L’America non ha inventato i diritti umani.
In realtà, i diritti umani hanno inventato l’America”
Rottamazione, indignazione, rifiuto della casta: l’America degli anni ’70 non era poi così diversa dall’Italia di oggi. Alle elezioni del 1976, la volontà di rottamare una classe politica vecchia, non tanto per motivi anagrafici, quanto per il troppo tempo trascorso nelle stanze del potere, si saldò allo sdegno sempre più acceso per gli scandali dell’era Nixon, che neppure la buona volontà di Ford era riuscita a far dimenticare. Il risultato fu un forte voto di protesta, con il quale gli americani affermarono la loro voglia di discontinuità, eleggendo alla Casa Bianca un semisconosciuto coltivatore di arachidi della Georgia di nome James Earl Carter o Jimmy Carter, come preferiva essere chiamato. Rimasto fino ad allora estraneo ai giochi della politica nazionale, Carter aveva all’attivo soltanto una breve esperienza come governatore del suo stato e, con il suo profilo da outsider, poteva presentarsi come la più radicale alternativa all’establishment di Washington. La gente vedeva in lui un rappresentante dell’America vera, quella che non era stata contaminata dalla corruzione e dagli scandali, l’America delle origini, semplice, rurale, religiosa. Proprio la religione svolse un ruolo determinante nel definire la figura pubblica di Carter, altrimenti piuttosto enigmatica: “cristiano rinato” di fede profondissima e di forte impegno sociale, ex insegnante di catechismo e buon padre di famiglia, egli seppe mettersi in sintonia con i sentimenti e le speranze di quella maggioranza di americani che chiedeva il cambiamento e insieme auspicava una riscoperta dei valori tradizionali. La sua campagna elettorale, dietro la quale per la prima volta non c’erano gruppi d’interesse né potentati economici, raccolse insieme componenti importanti della società, fino ad allora politicamente distanti, come la classe lavoratrice più povera, la popolazione di colore, gli evangelici del Sud. Eppure delle opinioni politiche di Carter si sapeva ben poco. Era noto il suo sostegno, insolito per un uomo del Sud, all’uguaglianza razziale, per la quale si era battuto negli anni di governo in Georgia, uno degli stati a più forte tradizione razzista: “Il tempo delle discriminazioni razziali è finito”, aveva annunciato appena eletto. Si sapeva che, caso rarissimo di coerenza nel panorama pro-life della politica americana, era contrario non solo all’aborto, ma anche alla pena di morte, tuttavia evitò sempre di sollevare l’argomento, con il quale certamente si sarebbe giocato la vittoria. Ma come Carter pensasse di affrontare i problemi più gravi che affliggevano l’America in quegli anni – inflazione da record, disoccupazione in crescita, rafforzamento del potere militare dell’URSS – nessuno avrebbe potuto dirlo. Per qualcuno egli era soltanto un populista, o al massimo un idealista totalmente astratto dalla realtà. E in effetti contro il duro scoglio della realtà si sarebbero infrante le buone intenzioni del presidente, una realtà che per le sfide che poneva avrebbe richiesto una guida forte e decisa, ciò che Carter non era e non poteva essere. L’uomo nuovo della politica a Washington era un isolato, incapace di affermare la sua autorità sul Congresso, che continuò a guardarlo con sospetto nel corso di tutto il mandato: nonostante disponesse di un’ampia maggioranza in entrambe le camere, Carter vide le sue proposte di riforma fiscale e di incremento dell’assistenza sanitaria sistematicamente respinte o distorte. La sua gestione dell’economia si dimostrò inefficace nel combattere i due mostri della disoccupazione e dell’inflazione, che durante la sua presidenza crebbero costantemente. Il pareggio di bilancio, promesso in campagna elettorale, non fu raggiunto e anzi nel 1980 il deficit toccò la spaventosa cifra di 50 miliardi di dollari.
Maggiore attenzione Carter dedicò alla politica estera, alla quale impresse il proprio sigillo: abbandonata la linea di Realpolitik portata avanti dai suoi predecessori repubblicani, Carter inaugurò un nuovo corso nella gestione degli affari internazionali, che aveva come nucleo fondamentale la tutela dei diritti umani e riecheggiava, per gli accenti retorici e la forte tensione morale che l’animava, l’idealismo progressista di Woodrow Wilson. La svolta fu piuttosto evidente: con Carter gli Stati Uniti entrarono in rotta di collisione con regimi repressivi e autocratici come quelli di Cile, Argentina, Etiopia e Sudafrica, che pure avevano a lungo sostenuto e rifornito di aiuti finanziari. Va detto, però, che la politica estera di Carter non fu del tutto priva di realismo, se è vero che nei confronti di stati non democratici legati a doppio filo agli interessi americani (Corea del Sud e Filippine in primis) la sua amministrazione si comportò in maniera assai più compiacente. L’impegno di Carter per il dialogo e la risoluzione pacifica dei conflitti rimase comunque sempre coerente e, attraverso un lavoro di paziente mediazione, mise a segno risultati di grande valore: nel settembre 1978 si svolse a Camp David, nel Maryland, sotto la regia del presidente americano il primo incontro fra i capi di stato di Egitto e Israele che sancì, dopo trent’anni di inimicizie, l’inizio di una fase di reciproco avvicinamento e portò nel giro di pochi mesi alla stesura di un trattato di pace. La pace in Medio Oriente era una delle questioni che stavano più a cuore al presidente e c’è da credere che Carter avrebbe dato un contributo importante anche all’avanzamento del dialogo fra Israele e Palestina se nel 1979 non si fosse aperto nella regione un nuovo focolaio di crisi dalla portata esplosiva: l’Iran. Dopo la caduta dello Scià di Persia, da sempre fedele alleato degli Stati Uniti, il Paese era finito nelle mani degli ayatollah, che avevano dato vita ad una repubblica islamica fondata sulle leggi della Shar’ia; dovettero passare pochi mesi perché l’avversione anti-occidentale del nuovo regime sfociasse in un violento attacco all’ambasciata USA di Teheran, durante il quale furono presi in ostaggio cinquantatre diplomatici. Per gli americani fu come vivere un nuovo Vietnam: feriti nel loro orgoglio nazionale, paralizzati dal senso di impotenza che la reazione esitante di Carter trasmetteva, caddero ancora una volta in un acuto senso di malessere. Il miserabile fallimento a cui andò incontro il tentativo di liberare gli ostaggi con una missione aerea aggiunse frustrazione a frustrazione e fece crollare la credibilità del presidente. Il colpo di grazia arrivò a dicembre, quando un’Unione Sovietica nuovamente sul piede di guerra invase l’Afghanistan: l’era della distensione era finita. Gli americani consideravano Carter colpevole di non aver impedito il riemergere della minaccia comunista e incapace di affrontare il nuovo pericolo rappresentato dall’integralismo islamico. Il disprezzo per il suo pacifismo e la richiesta di una leadership più forte raggiunsero il culmine quando Carter propose, in segno di protesta contro i sovietici, di boicottare i giochi olimpici di Mosca del 1980. “Breznev massacra gli afghani e tutto quello che sa dire quel mangiatore di noccioline è ‘non vengo a nuotare nella tua piscina’”, è la battuta piena di sarcastica amarezza del padre del protagonista nel bestseller “Il cacciatore di aquiloni”, scritto dall’esule afghano Khaled Hosseini. Al termine del suo mandato Carter godeva di una popolarità più bassa di quella di Nixon al momento delle dimissioni e le possibilità che venisse riconfermato erano decisamente scarse. Dopo una sfida estenuante all’interno del suo partito che lo vide scontrarsi con il senatore Ted Kennedy, Carter fu letteralmente travolto dalla valanga Reagan. Il rottamatore era stato rottamato, il voto del 1980 segnò il più secco rifiuto di un presidente in carica dai tempi in cui F. D. Roosevelt aveva sconfitto Hoover. Fondamentale per la vittoria del repubblicano fu l’appoggio dei cristiani evangelici, che tanto peso avevano avuto quattro anni prima nel portare alla Casa Bianca il devoto agricoltore della Georgia, e che d’ora in poi resteranno sempre saldamente ancorati a destra. Curiosamente Carter è stato uno dei presidenti meno amati della storia, eppure quello che più di tutti è stato rivalutato negli anni successivi al suo ritiro: ha continuato ad occuparsi di diritti umani e cooperazione internazionale attraverso una fondazione no profit istituita nel 1982, il Carter Center, e per questo è stato insignito nel 2002 del Premio Nobel per la Pace; i suoi scritti di denuncia contro il colonialismo israeliano e in difesa dei diritti dei palestinesi lo hanno messo spesso in contrasto con le linee fondamentali della politica estera americana degli ultimi decenni, specie quella dei repubblicani. A 88 anni resta una delle personalità più stimate e ascoltate della sinistra americana.