In quello straordinario laboratorio politico che è l’Europa ai tempi della crisi può capitare di assistere a esperimenti molto interessanti: da un medesimo reagente (la crisi economico-finanziaria, appunto) vengono fuori i prodotti più diversi e imprevedibili, e talvolta attraverso di essi si può intravedere, in maniera opaca e per via del tutto ipotetica, quello che sarà il prodotto finale, l’Europa del futuro. Di questi esperimenti vale la pena analizzarne almeno due, particolarmente interessanti perché in pieno svolgimento: il caso Islanda e il caso Scozia.
Partiamo dall’estremo Nord. Attualmente in lista d’attesa per aderire all’Unione Europea, l’Islanda è stata il primo Paese del Vecchio Continente ad entrare in recessione dopo il crack finanziario del 2008 ed il primo ad uscirne. Lo ha fatto con una serie di riforme varate dal governo socialdemocratico di Jóhanna Sigurðardóttir, che se sicuramente si discostano parecchio dalla ricetta lacrime e sangue imposta dalla Merkel ai governi dell’Europa mediterranea, nondimeno hanno pesato in modo notevole sulle spalle della popolazione islandese, la più esigua del continente (se si eccettuano i microstati) e una di quelle a più alto tenore di vita. Per rinsaldare il rapporto fra cittadini e istituzioni e dare alla crisi anche una risposta politica, il governo ha proposto nei mesi passati una revisione della Costituzione in vigore dal 1944, e ha voluto che a riscriverla fossero i cittadini: circa mille persone sono state incaricate di redigere una Dichiarazione dei diritti e delle libertà fondamentali, mentre altre venticinque si sono occupate della riscrittura della Carta vera e propria. I confini di questa piccola “assemblea costituente”, formata interamente dalla società civile, si sono allargati con l’ausilio del Web, che ha permesso a moltissimi altri cittadini di partecipare, proponendo idee e seguendo passo dopo passo i lavori. Domenica scorsa un referendum consultivo ha approvato ad ampia maggioranza la nuova Costituzione, che adesso è al vaglio del Parlamento e certamente sarà convalidata. Più ancora delle importanti novità introdotte dalla Carta (fra le principali: limite al numero di mandati per il capo dell’esecutivo e nuova definizione dei beni comuni, per cui tutto ciò che non appartiene ai privati è ipso facto proprietà dello stato), conta il modo in cui questa è stata concepita, scritta e approvata: quello islandese è un esperimento di democrazia diretta praticamente unico nella storia degli stati europei, che al tradizionale sistema rappresentativo occidentale affianca (e chissà se in un futuro prossimo si potrà dire: sostituisce) un esercizio attivo del potere decisionale da parte dei cittadini, reso possibile anche da quello straordinario strumento di democrazia orizzontale che è il Web.
Altro referendum, altra isola: la Gran Bretagna. E, nello specifico, la Scozia, che nel 2014 sceglierà, attraverso una consultazione referendaria, se rendersi indipendente da Londra. Con il referendum, indetto dal Primo Ministro di Edimburgo Alex Salmond, che è riuscito a ottenere la firma del suo omologo (e per ora diretto “superiore”) David Cameron, gli scozzesi decideranno se costituire uno stato autonomo e sovrano, per poi chiedere l’adesione all’Unione Europea. E chissà, magari anche alla moneta unica, allontanandosi così ulteriormente da Londra. Si tratta di un voto dal risultato tutt’altro che scontato, e che risponde a una richiesta di autonomia da sempre presente nelle Highlands, risvegliata dalla crisi economica e dal percorso a dir poco solitario che la Gran Bretagna ha intrapreso per venirne fuori, in obbedienza ad una secolare tradizione di “isolazionismo insulare”. Un fenomeno, quello della secessione, che sembra andare in direzione diametralmente opposta al movimento di unificazione europea che ha come meta ultima gli Stati Uniti d’Europa. E che potrebbe provocare un effetto a catena, rafforzando i movimenti indipendentisti di altre nazioni già in lotta da decenni come quello catalano, suscitandone di nuovi e ispirando anche quell’ampia compagine di secessionismi e leghismi assai meno legittimati sul piano storico (la Padania non è certo la Scozia). Un rischio per l’Europa dunque, oppure, chissà, l’opportunità di costituire un’Unione fondata sulle autonomie locali, sulle identità e le tradizioni dei popoli, restii ad unirsi proprio perché timorosi di perdere ciò che è loro peculiare: Edimburgo che chiede l’indipendenza da Londra per avvicinarsi a Bruxelles potrebbe essere un segnale che va in questo senso. Al momento è difficile dirlo e probabilmente bisognerà aspettare ben oltre il 2014 per farsi un’idea di quello che sarà il rapporto fra istanze di indipendenza nazionale e esigenza di unità inter-statale nell’Europa del futuro. Certo è che, per riprendere la metafora con cui abbiamo cominciato, presa in prestito dalla chimica, la crisi economica mondiale funge da catalizzatore delle varie crisi, più o meno piccole, in atto a tutte le latitudini. Accelera quei movimenti della storia che non è possibile arrestare, ma che spingono inesorabilmente verso qualcosa di nuovo. Questo vale, nel caso della Scozia, per la complessa dialettica unificazione-secessione, che è poi, sul piano mondiale, quella fra globalizzazione e particolarismo locale, e che non sappiamo a quali nuove soluzioni politiche porterà. Vale anche per il caso dell’Islanda, che con la sua esperienza di democrazia diretta, certamente difficile da esportare in contesti più popolosi e di diverso assetto istituzionale, pone una sfida che chiama in causa tutti: è la sfida dell’autodeterminazione dei popoli, strettamente connessa a quella della sovranità nazionale, che molti Paesi sentono minacciata in questi tempi di crisi, espropriata da organismi oligarchici e privi di legittimazione popolare come quelli della cosiddetta Troika. L’Islanda esce dalla crisi dando la parola ai cittadini, e in questo modo assicura un consenso popolare molto più vasto alla trattativa in corso per l’ingresso nell’Unione Europea, non considerata più, a questo punto, come una decisione calata dall’alto. Popoli liberi e padroni del diritto di autodeterminarsi saranno amici dell’Europa molto più di quelli che in questi anni hanno sentito il peso di un’unificazione forzata, che dà poco e chiede molto in termini di sacrifici. Forse l’esperimento islandese rimarrà isolato e probabilmente la democrazia diretta non sarà il sistema di governo del futuro; forse la Scozia non si separerà dalla Gran Bretagna e i vari movimenti secessionisti rientreranno: la crisi fa esplodere le contraddizioni, la Catalogna che chiede l’indipendenza da Madrid è la stessa che si rivolge al governo centrale per rimediare al proprio default. O forse le cose andranno in un altro modo. Per ora è tutto un gran ribollire di forse, in questo grande laboratorio che è l’Europa.
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