di Gianmarco Botti
“Mi sono ricordato di un recente film di successo.
E nello spirito di Rambo lasciate che vi dica:
‘Questa volta vinceremo!’”
Sotto la presidenza di Jimmy Carter raggiunse il culmine la stagione del cosiddetto “malessere americano”: quasi vent’anni da incubo, dall’assassinio di JFK alla crisi degli ostaggi in Iran, passando per la guerra in Vietnam, lo scandalo Watergate e le dimissioni di Nixon, un susseguirsi di traumi nazionali che avevano minato gravemente la fiducia del popolo americano in se stesso e nel proprio futuro. Nessuno dei successori di Kennedy era stato in grado di risvegliare l’entusiasmo e le speranze dei primi anni ’60, quando il sogno americano era più vivo che mai e la “nuova frontiera” sembrava a portata di mano. C’era bisogno di un nuovo Kennedy per risollevare il morale degli americani e arrivò nel 1980, anche se da destra: si chiamava Ronald Reagan. Ex attore hollywoodiano (aveva recitato in numerosi film di secondo piano vestendo soprattutto i panni del cowboy o del gangster), marito di due attrici (Jane Wyman prima e Nancy Davis poi), di Hollywood e della mitica età d’oro del cinema Reagan incarnava tutti i valori: ottimismo, sicurezza di sé, fiducia nel futuro; un profilo vincente il suo, che ben si confaceva anche alla carriera politica. Democratico fino all’inizio degli anni ’60, era poi passato nel campo dei Repubblicani, spinto da un viscerale anticomunismo che la militanza nel sindacato degli attori, fortemente orientato a sinistra, aveva esacerbato. Con un profilo pubblico che univa leadership e carisma, capacità comunicativa e fascino personale, Reagan si aggiudicò per due volte la poltrona di governatore della California, prima di puntare su Washington. Per la conquista della Casa Bianca si rivelò fondamentale il confronto televisivo con il suo avversario, durante il quale Reagan bucò letteralmente lo schermo: la sua fu un’interpretazione magistrale, fatta di battute ben assestate e sorrisi di circostanza, maniere eleganti e frasi ad effetto, che demolirono senza pietà le lunghe e complicate argomentazioni del serioso Jimmy Carter. La domanda retorica, “State meglio ora, rispetto a quattro anni fa?”, che Reagan pose ai telespettatori nel suo appello finale, è rimasta un cult nella storia dei dibattiti tv e rese chiaro fin da subito quale sarebbe stato l’esito delle elezioni. Il 20 gennaio 1981, mentre alla Casa Bianca si insediava il nuovo presidente, a Teheran i terroristi liberavano gli ostaggi americani, dopo più di un anno di inutili trattative. Una stagione si era chiusa e un’altra stava per iniziare. A settant’anni Reagan era il presidente più anziano mai eletto, eppure sprizzava energia giovanile da tutti i pori. Nel 1984, quando conquisterà un secondo mandato contro il cinquantaseienne Walter Mondale, alla domanda se l’età fosse per lui un problema, risponderà: “Prometto di non approfittare della giovane età del mio sfidante”. Uguale arguzia e sicurezza di sé Reagan seppe dimostrare anche nei momenti più tragici: il 30 marzo 1981, dopo solo due mesi dal suo insediamento, un giovane squilibrato sparò al presidente, con l’obiettivo di attirare l’attenzione dell’attrice Jodie Foster, di cui era un fan sfegatato; mentre davanti agli occhi della nazione l’incubo di Dallas sembrava materializzarsi ancora una volta, Reagan, che aveva un polmone perforato, sciolse la tensione in sala operatoria rivolgendosi ai chirurghi con queste parole: “Spero che siate tutti Repubblicani”. Agli americani piaceva questo presidente coraggioso e ottimista, che prometteva un “nuovo inizio” basato sul ridimensionamento dei poteri dello stato (“Lo stato non è la soluzione ai nostri problemi. Lo stato è il problema”, era il nucleo del Reagan pensiero) e sulla riaffermazione dell’autorità degli Stati Uniti nel mondo. Sotto la sua presidenza giunse a compimento quella “rivoluzione conservatrice”, già iniziata con Nixon, che le forze più ostili ai mutamenti sociali (media borghesia bianca di provincia e gruppi protestanti fondamentalisti in primis) chiedevano a gran voce. Il piano di misure economiche di Reagan, le cosiddette “Reaganomics”, segnava una netta inversione di tendenza rispetto al percorso di riforme che dal New Deal di Roosevelt fino alla Grande Società di Johnson aveva promosso l’intervento dello stato. Per Reagan era prioritario garantire la libertà di iniziativa individuale, eliminando i vincoli che la limitavano attraverso processi di deregolamentazione del mercato, e favorire così la crescita economica e la creazione di nuovi posti di lavoro. Se la torta diventa più grande, anche le singole fette saranno più grandi, era il succo della sua ricetta economica. Una ricetta neoliberista, elaborata dalla scuola di Chicago di Milton Friedman, e applicata in quegli anni anche dal governo britannico di Margaret Thatcher, con cui Reagan si trovò sempre in speciale sintonia: taglio delle tasse e della spesa pubblica, in particolare di quei servizi di assistenza sociale che apparivano non più sostenibili e che, agli occhi dei conservatori, avevano creato un ceto di parassiti a carico dello stato e un generale indebolimento morale della società. Se le politiche di Reagan fecero aumentare le disuguaglianze, con i poveri che diventavano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, e il taglio delle tasse favorì una spaventosa crescita del debito pubblico, tuttavia la ripresa economica ci fu e anche un forte incremento dell’occupazione.