di Gianmarco Botti
“Io continuo a credere in un posto chiamato Speranza”
Le elezioni del 1992 posero fine a dodici anni di predominio repubblicano e videro salire alla ribalta della politica nazionale una nuova generazione, quella dei cosiddetti “baby boomers”: figli dell’esplosione demografica del secondo dopoguerra, i ragazzi nati dopo il 1945 erano cresciuti in un’epoca di ricostruzione economica e sociale, pieni di speranze e progetti per il futuro, e adesso sentivano che era arrivato il momento di realizzarli. Bill Clinton era uno di loro. Nato in uno sperduto villaggio dell’Arkansas il cui nome, Hope, significa appunto “speranza”, aveva vissuto i suoi primi anni in un contesto di profondo degrado, orfano di padre e con un patrigno con problemi di alcolismo. Ciononostante si era messo in evidenza come uno degli studenti più brillanti della scuola, con una predilezione per la musica (soprattutto per il sassofono, che suona ancora oggi) e una spiccata propensione per la vita sociale. L’incontro con la politica era avvenuto molto presto: nel 1963, a soli sedici anni, aveva partecipato ad un raduno giovanile alla Casa Bianca, durante il quale era riuscito anche a stringere la mano al presidente Kennedy. Dopo gli studi di legge a Yale, proseguiti con una borsa di studio a Oxford, nel 1975 aveva sposato una compagna di corso, Hillary Rodham, anche lei politicamente impegnata. Tornato in Arkansas, Clinton era stato eletto governatore per due mandati, distinguendosi per la capacità di attirare grossi investimenti e per l’attenzione dedicata all’istruzione. Era ancora sconosciuto ai più quando, nel 1992, annunciò la sua candidatura alla Casa Bianca, approfittando della rinuncia dei big del partito, convinti che Bush fosse imbattibile. Subito i media nazionali accesero i riflettori su questo candidato giovane e di bell’aspetto, che con il suo stile dinamico e persuasivo sembrava l’erede tanto di Kennedy quanto di Reagan: Clinton piaceva sia ai bianchi che ai neri, al tradizionale elettorato democratico (donne, gay e minoranze etniche in primis) e anche a quello che negli anni ’80 aveva votato a maggioranza per i Repubblicani (cattolici, abitanti delle periferie, indipendenti, giovani); si presentava come un “Nuovo Democratico”, moderato e post-ideologico, convinto che, dopo lo spostamento a destra del Partito Repubblicano negli anni di Reagan, spettasse ai Democratici occupare il centro, dimostrando di non essere più il partito delle tasse e della spesa pubblica e trovando nella “classe media dimenticata” dalle politiche degli ultimi decenni, sia di destra che di sinistra, il principale interlocutore. La sua fu una campagna fortemente innovativa, che riuscì a rendere la politica più vicina ai cittadini negli anni in cui Internet muoveva i suoi primi passi e i vecchi rituali della liturgia elettorale apparivano irrimediabilmente superati: Clinton girò in lungo e in largo gli Stati Uniti a bordo di un autobus per “incontrare la gente”, raggiungendo le periferie più degradate e i centri urbani più remoti dove mai un candidato si era spinto prima. La sua corsa rischiò di arrestarsi quando vennero fuori rivelazioni compromettenti circa alcune relazioni adulterine, la renitenza alla leva negli anni del Vietnam, l’uso di sostanze stupefacenti. Le sue smentite non risultarono del tutto convincenti, ma ormai la volata era lanciata: alle elezioni di novembre Clinton riportò una netta vittoria, sebbene la percentuale ottenuta, il 43%, ne facesse il primo presidente di minoranza dal 1968. A quarantasei anni era il più giovane presidente eletto dai tempi di Kennedy e il suo ingresso alla Casa Bianca, con la moglie Hillary e la figlia adolescente Chelsea, fu come una ventata d’aria fresca per gli americani, ai quali parve che una nuova epoca stesse per iniziare. Tuttavia Clinton aveva un mandato troppo debole per attuare pienamente il suo programma e nei primi mesi finì per deludere le aspettative che aveva suscitato: la proposta di mettere al bando le discriminazioni contro i gay nelle forze armate provocò la dura protesta degli ambienti militari e non se ne fece più nulla; il piano di riforma sanitaria elaborato da una commissione presieduta da Hillary (primo caso di ruolo politico attivo per una first lady) fu respinto dal Congresso. Ambiguo fu anche il bilancio della politica estera: se la celebre stretta di mano fra il leader palestinese Arafat e il premier israeliano Rabin, avvenuta nel settembre 1993 a Washington sotto lo sguardo soddisfatto del presidente americano, accreditò l’immagine di Clinton come uomo di pace a livello mondiale, l’atteggiamento del governo USA sul genocidio in Ruanda del 1994 fu accusato di indifferenza dalla comunità internazionale. Maggiore impegno Clinton profuse nel sostenere il processo di pace in Irlanda del Nord insieme al leader laburista e poi Primo Ministro britannico Tony Blair, al quale lo legherà un rapporto politico e ideale simile a quello che aveva unito Reagan e la Thatcher. In casa propria Clinton mise a segno un importante risultato con l’entrata in vigore, il 1 gennaio 1994, del NAFTA (North American Free Trade Agreement), che aboliva gli ostacoli al libero commercio fra USA, Canada e Messico, favorendo una forte ripresa economica, nonché una consistente diminuzione del debito pubblico. Erano gli anni in cui l’industria informatica cresceva a dismisura e nella Silicon Valley, in California, si sviluppavano una nuova creatività e un nuovo spirito di impresa che promettevano un futuro di prosperità per l’America alle soglie del 2000. Nonostante gli indubbi successi, l’amministrazione Clinton ricevette un duro colpo alle elezioni di midterm del 1994, quando i Repubblicani conquistarono la maggioranza in entrambe le Camere. Il nuovo speaker della Camera, il paladino dei conservatori Newt Gingrich, si mise a capo di uno schieramento anti-Clinton intenzionato a dargli filo da torcere in Congresso.
Una parziale tregua politica si ebbe dopo il 19 aprile 1995, quando una terribile esplosione uccise quasi duecento persone e ne ferì più di ottocento a Oklahoma City: l’attentato, di cui fu riconosciuto colpevole un veterano della Guerra del Golfo, fu il più grave attacco terroristico avvenuto sul suolo americano prima dell’11 settembre 2001; il Congresso parve per un attimo ritrovare la sua unità e nel 1996 votò a grande maggioranza l’Anti Terrorism Act proposto dal presidente. Sempre nel 1996, forte della strabiliante crescita economica e della statura da commander in chief dimostrata dopo l’attentato, Clinton ottenne la rielezione, primo Democratico ad essere eletto per due mandati consecutivi dai tempi di F. D. Roosevelt. Ma l’idillio sarebbe durato poco; un’altra bomba presto sarebbe esplosa, travolgendo per intero il suo secondo mandato: questa bomba si chiamava sexgate. Già nel 1994 il Procuratore generale Kenneth Starr, fervente repubblicano, aveva messo sotto processo il presidente per le accuse di molestie sessuali mossegli da Paula Jones, impiegata nel suo ufficio nel periodo in cui era stato governatore dell’Arkansas. Il caso si era chiuso per mancanza di prove, ma all’inizio del 1998 Starr tornò all’attacco, accusando Clinton, sulla base di alcune registrazioni, di aver avuto una relazione con una giovane stagista della Casa Bianca di nome Monica Lewinsky. La Lewinsky era intervenuta nel processo Jones come testimone, in quanto stretta collaboratrice del presidente, e in quell’occasione aveva affermato sotto giuramento di non aver mai avuto rapporti intimi con lui, cosa che d’altra parte aveva fatto lo stesso Clinton. Adesso che la verità era venuta a galla, suffragata da inconfutabili prove, Clinton si trovava in una posizione difficilissima. Inizialmente provò a negare ogni cosa: “Non ho avuto rapporti sessuali con questa donna. Non ho chiesto a nessuno di mentire, non una sola volta: mai”. Poi, dopo essere stato interrogato dal Grand jury (era la prima volta che un presidente era costretto a tanto), decise di apparire in televisione per rettificare: ammise che fra lui e la stagista c’erano state “relazioni inappropriate”, ma ribadì di non aver mai costretto nessuno a mentire. Intanto l’opposizione repubblicana in Congresso, capitanata da Gingrich, avviava le procedure per chiedere l’impeachment: era accaduto una sola volta nella storia della Casa Bianca, quando nel 1868 il Congresso aveva tentato di rimuovere il presidente Andrew Johnson, e ci si era andati vicini in anni più recenti, quando Nixon, travolto dallo scandalo Watergate, si era salvato rassegnando le dimissioni. L’8 ottobre 1998 la Camera votò a maggioranza semplice per autorizzare l’impeachment. Nel febbraio dell’anno successivo il Senato non riuscì a raggiungere la maggioranza di due terzi richiesta per l’approvazione: Clinton era salvo. La sua popolarità non uscì particolarmente danneggiata dal caso Lewinsky, anche perché nello stesso periodo venivano a galla numerosi casi di infedeltà matrimoniale anche fra i Repubblicani moralmente più intransigenti, fra cui lo stesso speaker Gingrich. In realtà il fatto più grave non era la relazione in sé, né che questa fosse stata consumata nei luoghi più “sacri” della Casa Bianca, come lo studio ovale; il fatto più grave era che un presidente avesse deliberatamente mentito davanti a una giuria e davanti al suo popolo. Tuttavia, quasi a distrarre l’opinione pubblica dai guai del presidente, negli ultimi anni del suo mandato intervennero diverse congiunture internazionali: l’Iraq di Saddam Hussein tornò a mostrarsi minaccioso e Clinton, indicando in esso uno dei cosiddetti “stati canaglia”, nemici degli Stati Uniti e dell’Occidente, sostenne che era necessario intervenire urgentemente, anticipando di fatto quelle che poi saranno le mosse dell’amministrazione Bush; nel 1999 il governo americano insieme con la NATO attaccò la Jugoslavia del dittatore Milošević, accusato di pulizia etnica ai danni della popolazione del Kosovo; il segretario di stato Madeleine Albright, prima donna a ricoprire l’incarico, definì quella dei Balcani una “guerra umanitaria”, giustificata dalla necessità di difendere i diritti umani, secondo una prospettiva ideologica che avrebbe ispirato la politica estera degli anni successivi. Dopo il ritiro, Clinton è rimasto una delle figure più popolari dell’universo liberal americano, ha scritto un’autobiografia e ha continuato ad intervenire in numerosi eventi pubblici. Nel 2008 ha sostenuto la candidatura della moglie Hillary alle primarie democratiche e, dopo la sua sconfitta, è diventato uno dei principali supporter di Obama, collaborando anche di questi tempi alla campagna per la sua rielezione. C’è da credere che, se Hillary punterà di nuovo alla Casa Bianca nel 2016, Bill giocherà ancora un ruolo importante. Intanto, quando è stato chiesto agli americani con quale presidente avrebbero avuto più piacere di mangiare un hamburger, la maggioranza ha risposto Bill Clinton.