di Gianmarco Botti
“Col passare degli anni, la maggioranza degli americani
è stata in grado di tornare a vivere una vita normale,
come prima dell’11 settembre.
Ma io no. Ogni mattina ho ricevuto i briefing
sulle minacce alla nostra nazione.
E ho giurato che avrei fatto tutto quanto in mio potere
per mantenerci al sicuro”
Il 2000 è stato l’anno in cui la matura democrazia americana ha dovuto fare i conti con i propri limiti, accettando il verdetto di un’elezione che a ragione si può ritenere la più controversa della sua lunga storia. E dire che da principio era sembrata una riedizione della sfida del 1992, con Al Gore al posto di Clinton, di cui era stato per otto anni il fedelissimo vicepresidente, e George Walker Bush, figlio primogenito del vecchio presidente repubblicano, a fare le veci del padre. Certo, le differenze non mancavano, e se Gore non aveva il carisma di Clinton, George W. Bush sicuramente non era suo padre: Bush senior era sempre stato un moderato e aveva dovuto faticare non poco per fare breccia nel mondo della nuova destra estremista e religiosa, un mondo in cui invece Bush junior si trovava pienamente a suo agio. Dopo una giovinezza di intemperanze, segnata da un debole per l’alcol che una volta lo aveva anche portato in galera, aveva intrapreso un cammino di redenzione sotto la guida di un pastore battista, il reverendo Billy Graham. A quarant’anni poteva dirsi un “cristiano rinato”, e la sua storia di conversione lo rendeva il candidato ideale per rappresentare i valori di un elettorato evangelico in cerca di nuovi portabandiera. Proprio l’appoggio degli evangelici, insieme ai consigli dello stratega Karl Rove (che sarà l’eminenza grigia dietro tutta la sua carriera politica) e alla popolarità acquisita come presidente di una locale squadra di baseball, nel 1994 gli valse l’elezione a governatore del Texas, riconfermato anche nella tornata successiva. Quando nel 2000 si candidò alle primarie repubblicane per la presidenza, dovette lottare non poco per affermarsi sul senatore John McCain, incarnazione dell’ala moderata del partito, ma il sostegno dei gruppi cristiani fondamentalisti si rivelò vincente ancora una volta. La strada di Bush verso la Casa Bianca era però tutt’altro che spianata: non solo l’elettorato liberal, ma anche gran parte della stampa e dell’opinione pubblica guardava con ostilità a questo petroliere del Texas tutto Dio, patria e famiglia, che nelle apparizioni pubbliche faceva sfoggio di una colossale ignoranza e di un pronunciatissimo accento del Sud, ed era diventato il bersaglio perfetto della più corrosiva satira televisiva. Dal canto suo Bush poteva contare sul sostegno di un’altra America, quella che non andava sui giornali o in televisione, che non aveva niente a che fare con i circoli della cultura e dell’intellighenzia urbana, un’America profonda che negli anni di Clinton si era come eclissata, disorientata dal vento riformista che da Washington si era propagato per tutta la nazione, ma che dagli anni ’80 non aveva mai smesso di cercare un nuovo Ronald Reagan e adesso credeva di averlo trovato. Queste due Americhe si fronteggiarono nelle elezioni di novembre senza che nessuna riuscisse a prevalere chiaramente sull’altra, e alla fine di una partita giocata sul filo del rasoio furono 537 contestatissimi voti della Florida a fare la differenza: essi davano a Bush la maggioranza nel collegio dei grandi elettori, mentre era chiaro che a livello nazionale Gore aveva fatto il pieno di suffragi popolari. Il ricorso di Gore, che chiedeva il riconteggio dei voti, si infranse contro il verdetto della Corte Suprema che con una maggioranza di 5 a 4 decise di assegnare i voti della Florida, e quindi la vittoria, al candidato repubblicano. Rimaneva il senso di una democrazia mutilata: l’elezione era stata decisa da uno stato, la Florida, il cui governatore era Jeb Bush, fratello minore di George W., e da una Corte Suprema composta a maggioranza da giudici conservatori, nominati da Reagan e Bush padre. George W. Bush era il nuovo presidente, ma non poteva dirsi il presidente di tutti, anzi, forse lo era solo della minoranza. Dovettero intervenire i tragici fatti dell’11 settembre, ad appena otto mesi dal suo insediamento, perché una nazione colpita al cuore fosse costretta a mettere da parte le antiche divisioni e a ritrovare la sua unità intorno ad un leader che magari non aveva scelto, ma che adesso sembrava l’unico in grado di farla rialzare. L’attacco al World Trade Center, simbolo dell’Occidente trionfante e della superiorità economico-tecnologica americana, costò la vita a quasi 3000 cittadini innocenti e annientò in un attimo tutte le illusioni su cui gli Stati Uniti avevano fondato la loro sicurezza dopo la fine della Guerra Fredda: il mondo di pace, democrazia e libertà in cui avevano creduto e di cui si erano ritenuti la colonna portante non esisteva, o quantomeno aveva smesso di esistere nel momento in cui avevano scoperto che c’era anche un altro mondo, portatore di valori diversi, addirittura contrari, che muovevano guerra a quelli dell’Occidente. Di questi due mondi poteva esisterne solo uno, è quel che sembrava dire l’11 settembre. Nasce qui la teoria dello scontro di civiltà, che sarà il nucleo della filosofia neoconservatrice e il principale motore ideale della politica estera dell’amministrazione Bush. Il presidente, che al momento dell’attentato si trovava in visita ad una scuola elementare della Florida, fu prontamente prelevato e rimase in volo per alcune ore per ragioni di sicurezza, prima di atterrare in una New York devastata come mai era successo prima.
New York, la liberal New York che non lo aveva mai amato, dalla quale per otto mesi il presidente texano si era tenuto lontano, adesso lo accoglieva come un salvatore. Il discorso più efficace della sua presidenza Bush lo tenne fra le macerie, con il megafono in mano e le lacrime agli occhi, dando voce alla volontà di rivalsa degli americani con la promessa che l’attacco non sarebbe rimasto impunito e che il governo avrebbe “perseguito e castigato i responsabili di questi atti vili”. I suoi consensi salirono alle stelle. Subito fu individuata la mente dell’attentato nello sceicco saudita Osama Bin Laden e nel giro di una settimana il presidente annunciò che egli era “ricercato, vivo o morto”. Annunciò anche che gli USA non avrebbero fatto distinzione “fra gli autori degli attentati e chi li protegge” e nell’ottobre del 2001 diede inizio all’intervento in Afghanistan, con lo scopo di abbattere il regime talebano accusato di prestare ospitalità ad Al Qaeda, l’organizzazione terroristica guidata da Bin Laden. Era la prima fase di quella “guerra totale al terrore” che Bush indicava come la priorità assoluta per ristabilire la sicurezza degli Stati Uniti e di tutto l’Occidente e che, in una sorta di complesso di accerchiamento, doveva estendersi in molteplici direzioni: nel discorso sullo Stato dell’Unione del 2002, il presidente riprese la terminologia reaganiana per descrivere un minaccioso “Asse del Male”, costituito dall’Iraq di Saddam Hussein, dall’Iran integralista e dalla Corea del Nord comunista, contro il quale si doveva indire una vera e propria crociata, condotta da una “coalizione di volenterosi” e animata dai valori democratici. L’idea che la democrazia potesse e dovesse essere esportata, insieme al concetto di guerra preventiva come mezzo per abbattere i regimi tirannici e potenzialmente pericolosi, costituiva la cosiddetta “dottrina Bush”, il cui primo banco di prova fu l’Iraq. L’Iraq rappresentava una sorta di “unfinished business” rimasto aperto dai tempi della Guerra del Golfo, e Bush intendeva portare a termine ciò che suo padre aveva iniziato. Riprendendo la vecchia storia delle armi di distruzione di massa, accusò il regime di Saddam di costituire una minaccia per la pace mondiale e il 20 marzo 2003 inviò le truppe americane sul suolo iracheno. Questa volta gli USA non potevano contare sull’appoggio della comunità internazionale che si schierò quasi tutta contro l’intervento, con l’importante eccezione della Gran Bretagna di Tony Blair, che rimarrà fino alla fine la loro più fedele alleata. Durissima fu la condanna della guerra da parte di Papa Giovanni Paolo II: “Chi decide che sono esauriti i mezzi pacifici che il diritto internazionale mette a disposizione si assume una grande responsabilità davanti a Dio, alla propria coscienza e alla storia”. L’intervento in Iraq fu la conferma che gli Stati Uniti di Bush avevano preso una strada diversa rispetto al passato, preferendo al dialogo e alla cooperazione con le altre potenze il perseguimento di una linea d’azione unilaterale. Dietro le scelte della sua amministrazione c’erano principalmente il vicepresidente Dick Cheney, una vecchia volpe della politica estera americana, già Segretario alla Difesa con Bush padre, e il Segretario di Stato Colin Powell, primo afroamericano a ricoprire l’incarico, poi sostituito nel 2005 da Condoleeza Rice, anche lei afroamericana. La guerra, che è durata ben oltre la fine della presidenza Bush, è costata quasi 4000 vittime fra americani e alleati e un numero molto più grande fra la popolazione irachena. Il regime di Saddam crollò ben presto e il vecchio dittatore, condannato a morte da un tribunale iracheno, fu impiccato il 30 dicembre 2006. Le armi di distruzione di massa non furono mai trovate e il presidente fu accusato di aver mentito per ottenere l’appoggio dell’opinione pubblica alla guerra. Mentre la sua popolarità andava incontro ad un brusco tracollo, Bush ottenne tuttavia la riconferma alle elezioni del 2004: gli americani non se la sentivano di correre il rischio di affidarsi ad un nuovo leader, con due conflitti ancora aperti di cui si faceva fatica a vedere la fine. Un ulteriore colpo alla credibilità di Bush venne dalla cattiva gestione del disastro provocato dall’uragano Katrina, che nell’agosto 2005 devastò Louisiana, Mississippi e Alabama, abbattendosi con particolare forza sulla città di New Orleans. Sul piano interno egli si mosse con lo stesso spirito di crociata che aveva animato le sue scelte di politica estera: oppose più volte il veto presidenziale alla proposta di legalizzare le unioni gay e cercò anche di far approvare un emendamento costituzionale che affermasse la legittimità del solo matrimonio fra uomo e donna; bloccò gli studi sulle cellule staminali embrionali, attirandosi anche le critiche della madrina della destra americana, Nancy Reagan, da anni impegnata a sostenere una ricerca che sembrava offrire l’unica chance di cura per il morbo di Alzheimer, da cui era affetto il marito; scettico sulle teorie del riscaldamento globale, si rifiutò di sottoscrivere accordi per ridurre le emissioni di sostanze inquinanti, ritirando anche la firma degli USA dal Protocollo di Kyoto, già approvato da Clinton. Le ingenti spese per la guerra in Iraq, gli sgravi fiscali ai ricchi e l’allentamento del controllo governativo sulla finanza favorirono un nuovo aumento del debito pubblico e della disoccupazione, e aprirono le porte a quelle manovre speculative che poi nel 2008 saranno all’origine della più grave crisi economico-finanziaria dalla Grande Depressione. Al suo ritiro Bush lasciò un Paese in guerra col mondo e con se stesso, lacerato da profonde divisioni sociali e da una crisi economica appena agli inizi; il suo indice di popolarità era uno dei più bassi mai registrati nella storia della presidenza.