E alla fine, dibattito fu. All’americana, una roba che qui da noi non si era mai vista. Nell’avveniristica cornice degli studi di X-Factor, per la prima volta gli italiani hanno potuto vedere gli aspiranti candidati premier di una coalizione, quella del centro-sinistra, rispondere alle domande in diretta tv, uno accanto all’altro in piedi dietro al leggio, secondo uno schema che negli USA si rispetta da tempo immemorabile. Per qualcuno è stata l’occasione buona per farsi conoscere (Laura Puppato), per qualcun altro l’opportunità di mettere alla prova con un nuovo format una presenza televisiva di lunga corso (Bersani e Tabacci), per qualcun altro ancora il dibattito tv era il contesto migliore per far emergere il proprio carisma (Renzi e Vendola). Comunque sia, il risultato è stato certamente poco “americano” se consideriamo le distanze abissali che separano “sto Paese qua” (cit. Bersani) dagli States, dove la consolidata abitudine dei candidati e del pubblico al confronto televisivo si traduce in spettacoli di altissima comunicazione politica, con un impatto determinante sulle scelte di voto dei cittadini. Sia i “fantastici cinque”, come sono stati simpaticamente ribattezzati i concorrenti alla leadership del centro-sinistra, sia il moderatore, Gianluca Semprini di Sky Tg24, erano poco avvezzi a questo genere di formato, e lo si è visto chiaramente: con l’eccezione di Matteo Renzi, il più “americano” di tutti, i candidati avevano difficoltà a guardare direttamente in camera, alcuni interventi si prolungavano oltre il suono del gong, qualche ripresa impietosa ha colto addirittura Vendola e il sindaco di Firenze mentre chiacchieravano fra loro, tutte cose che nei debates d’oltreoceano non si vedrebbero mai; Semprini per parte sua interveniva troppo e con troppa insistenza, rubando secondi preziosi ai candidati, interrompendo i loro interventi con nuove domande (spesso ignorate) e una volta ha anche tradito una colpevole distrazione, quando ha inteso che Bruno Tabacci volesse appoggiare Monti premier anche dopo le elezioni di aprile, mentre si era espresso chiaramente per una candidatura del Professore al Quirinale. Infine, regole ferree per i tempi di risposta, troppo compressi per sviluppare un confronto autentico e approfondito sui programmi, ma starebbe anche bene, è così che vanno le cose pure dall’altra parte dell’Atlantico, se non fosse che nel tenere a freno i propri umori il pubblico italiano si fa molti meno problemi e non sono bastati neppure i ripetuti richiami all’ordine di Semprini per impedire che i candidati venissero interrotti da scrosci d’applausi e fischi (all’americana anche quelli, speriamo) nel corso dei loro interventi. Prendiamola così: era soltanto una prova generale dalla quale non potevamo pretendere troppo; impegniamoci piuttosto tutti (pubblico, candidati e moderatori) ad arrivare più preparati alla prossima puntata, sperando che il dibattito di ieri non rimanga un unicum nella vita democratica del Belpaese.
Il fatto è che forse non ci accorgiamo di come la politica si giochi ancora molto in televisione, di come il Web non sia riuscito a soppiantare del tutto il tubo catodico nel compito fondamentale di avvicinare i candidati agli elettori. La prova viene ancora una volta dall’America, dove il candidato più “social” di tutti i tempi, Barack Obama, che nel 2008 costruì la sua fortuna politica attraverso un’eccezionale campagna di fundraising su Internet, quest’anno ha rischiato di perdere la corsa per la rielezione a causa della pessima performance televisiva nel primo confronto con lo sfidante repubblicano Mitt Romney. E, anche se qui da noi sarebbe difficile immaginare che un dibattito tv possa spostare così tanti voti (tra l’altro il confronto di ieri sera è andato in onda su Sky, con un pubblico ben più ristretto di quello che avrebbe potuto seguirlo sulle reti nazionali), resta l’importanza di un primo timido passo verso la modernizzazione della comunicazione politica. Non si tratta di imitare gli Stati Uniti in tutto e per tutto. Certamente è stata una bella sorpresa scoprire che nelle due ore del dibattito di ieri sera una sezione era dedicata alle domande dei cittadini, che hanno potuto rivolgersi direttamente ai candidati secondo uno schema che ricorda il town hall meeting delle presidenziali americane, anche se lì gli sfidanti sono in condizione di muoversi liberamente e non ingessati dietro un leggio, e a porre le domande sono cittadini indecisi su chi votare e non, come nel caso italiano, sostenitori di questo o quel candidato; al contempo, però, il popolo del centro-sinistra, fin troppo abituato a baruffe e guerre intestine, avrà tirato un sospiro di sollievo nell’osservare l’atmosfera di assoluto fair play in cui si è svolto il confronto, lontana anni luce dal clima incandescente che caratterizza la corsa alla nomination presidenziale negli USA (democratica o repubblicana che sia): niente colpi bassi, nessuna sovrapposizione di voci, i candidati hanno fatto scarsissimo uso del diritto di replica e hanno rivelato un’uniformità di vedute e di valori di fondo che, al di là delle differenze su specifici argomenti, è esattamente quello che ci si aspetta dai candidati leader di una stessa coalizione; era quasi commovente sentir nominare, quali stelle polari dell’unico firmamento ideale dei progressisti, figure quanto mai diverse e insieme profondamente vicine come Alcide De Gasperi, Nilde Iotti, Nelson Mandela, il cardinal Martini, Papa Giovanni XXIII. E allora poco importa se Renzi non è Obama e la Puppato non è Hillary Clinton; se secondo gli standard americani Bersani e Tabacci risultano decisamente poco telegenici, e il loro carisma ricorda più quello dei nostri vecchi segretari comunisti e democristiani che non quello dei leader occidentali contemporanei; se un’oratoria come quella di Vendola è troppo sofisticata e quindi meno incisiva, in termini di impatto sul grande pubblico, rispetto a quelle “poche idee, ma chiare” che sono la forza dei candidati USA. Si può fare sempre di meglio, ma non ci lamentiamo. Intanto, ben venga il dibattito all’italiana.
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