di Gianmarco Botti
Oggi più che mai, credo sia necessario prenderla con filosofia. Non intendo, secondo un vecchio modo di dire, che è il caso di prendere le cose con distacco, magari con superficialità, facendo passare tutto. Prenderla con filosofia è una cosa serissima. Significa dare alle cose un grande peso, il peso della filosofia stessa, il peso delle idee. Vuol dire passare la realtà che ci circonda al vaglio del pensiero, della ragione, come esercizio di intelligenza e libertà, che sono poi le caratteristiche fondamentali dell’essere umano. Platone era uno che davvero la prendeva con filosofia. Non certo nel senso, come pensano quelli che vedono in lui il prototipo del filosofo con la testa fra le nuvole, troppo immerso nell’Iperuranio per vedere le cose così come sono, che davanti alla realtà egli chiudesse gli occhi; anzi, il suo sguardo sul mondo era lucido e si avvaleva del metro del pensiero, che è “l’occhio dell’anima”. È davvero difficile far passare questa idea, tanto più oggi che ci troviamo in un contesto in cui sembra che il pensiero sia roba vecchia e inutile, una perdita di tempo a cui anteporre, senza se e senza ma, l’agire. In Italia, oggi, va di moda il “governo del fare”. Ma fare che cosa? Come si può fare senza prima aver pensato con serietà cosa fare? Un fare svincolato dal pensare porta direttamente in un vicolo cieco. Chi fa senza pensare rischia di fare – anzi, senza dubbio fa – male. Questo i filosofi lo sanno bene e Platone sopra tutti. Perciò ho voluto iniziare da lui e dalla Repubblica in particolare. Quando nel bel mezzo della sua opera, egli si spinge a dire che “ci sarà un buon governo solo quando i filosofi diventeranno re o i re diventeranno filosofi”, non si lascia andare certo ad una boutade, come pure viene recepita dai suoi interlocutori dialogici e da buona parte dei lettori disincantati. Con questa frase, destinata ad avere lunga eco nei secoli successivi, Platone, per bocca di Socrate, vuole indicare come la politica possa adempiere al suo mandato solo se poggia sulla solida base delle idee, della ragione e della cultura, che le diano un orientamento. Come l’utopia mette le ali alla storia permettendole di volare alto, così sono le idee a fare della politica qualcosa di alto e nobile. Mi vengono in mente numerosi esempi della storia in cui, almeno per un attimo, il progetto di Platone è sembrato realizzarsi: penso all’Aristotele precettore del più grande condottiero di tutti i tempi, Alessandro Magno; penso al Seneca maestro di Nerone e fautore del buon governo nei suoi primi anni di impero; penso ancora al tentativo, profondamente platonico, di un gruppetto di intellettuali di instaurare a Napoli, nel 1799, una repubblica fondata sulle idee e sul sapere. Si dirà che il fallimento di tutti questi progetti conferma l’intrinseca fragilità dei loro presupposti. Io non sono di questo avviso. Il problema, in più di un caso, anche fra quelli riportati, è che il pensiero, l’esercizio della ragione, la filosofia, insomma, è stata concepita per lo più come un bene di pochi, una roba da élite. Se non solo pochi intellettuali “illuminati”, ma un ben più grande numero di persone facesse proprio l’appello di Kant ad “avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza”, l’idea di un “governo del pensare” non sarebbe più così utopistica neppure quando ad andare per la maggiore è lo slogan del “governo del fare”. Adesso siamo ancora molto lontani. È quanto constata anche Giovanni Reale nella sua recente “intervista immaginaria” a Platone: interrogato su come vedrebbe una sua venuta nell’Italia di oggi, il filosofo ateniese si dice convinto che non se la caverebbe come è riuscito a fare dopo i suoi tre travagliati viaggi in Sicilia, che l’attuale classe politica lo metterebbe sicuramente in ceppi. Per ora meglio rimanere nell’Iperuranio!