TRAMA: Figlia del famoso torero Antonio Villalta (Daniel Giménez Cacho), ridotto sulla sedia a rotelle dopo una sfortunata corrida, e orfana della madre (Inma Cuesta), cantante di flamenco, morta di parto, la piccola Carmen (Sofìa Oria) è vessata dalla crudele matrigna Encarna (Maribel Verdù) e sfruttata come serva. Cresciuta, Carmen (Macarena Garcìa) fugge alla furia omicida della megera dopo la morte del padre, e si salva grazie all’incontro con sette nani toreri: smemorata, si aggrega alla loro squadra e scopre qualità genetiche da torera che la portano a un enorme successo. Ma una corrida nella Plaza de Toros della sua Siviglia può risvegliare i ricordi del tragico passato.
GIUDIZIO: Muto, in bianconero, espressionista e virtuoso nella sua messinscena classicamente vintage, “Blancanieves” di Pablo Berger è un trionfo di cinema vero e inventiva, cultura folkloristica e poesia iberica, un capolavoro post-moderno in cui l’estetica del muto, con le sue citazioni e i suoi canoni espressivi, la forza sola delle immagini e del commento musicale, non è solo un fine, come è stato per il contemporaneo e più blasonato “The Artist” – dove lo stile rétro era giustificato dall’omaggio alla Hollywood di un tempo – ma bensì un mezzo, perfetto, per raccontare una storia: la solita, quella dei fratelli Grimm portata al cinema stancamente in tutte le salse, ma qui completamente ribaltata, sovvertita, stravolta in una versione gotica, spagnolissima e stravagante dove Biancaneve e i sette nani sono toreri, la scena è quella della Siviglia degli anni ’10 e ’20, e il proverbiale sentimentalismo buonista disneyano fiabesco va a farsi benedire in favore di una tonalità cupissima, un’ironia nera e un gusto grottesco che scatenano una serie continua di invenzioni stilistiche, comiche, poetiche totalmente imprevedibili e strepitose. Sotto l’egida di una fortissima identità patriottica, “Blancanieves” ha il ritmo di una corrida, la passione del flamenco, il sangue dell’arena, le piroette circensi e il peso dell’invidia, del duello amoroso, che è cuore e radice del romanticismo spagnolo: una “Carmen” moderna ed edipica, al ritmo della guitara e delle nacchere, ma con l’estetica più antica del cinema, i primi piani, le gag, la profondità di campo, le luci e le oscurità del grande cinema muto, giunto qui nella sua massima espressione, senza alcun compiacimento di sorta. Non è un divertissement, né un semplice omaggio, né un pastiche: è il film come deve essere, semplice, asciutto, emozionante, come quello dei primordi. Il manierismo del cinefilo Pablo Berger non si consuma in un esercizio di stile, ma serve a raccontare una favola nera fuori dal tempo, rivoluzionaria e beffardamente anarchica, che non poteva essere rappresentata altrimenti, un connubio di emozione immediata e sintesi narrativa, e che scopre nell’arena un teatro delle sensazioni della vita, il riso, il pianto, lo spettacolo, l’angoscia, la leggiadria dell’infanzia e l’orrore della crudeltà degli adulti, il peso del passato e dei ricordi, dei fantasmi e dei ritorni, un piccolo mondo antico dove bene e male, odio e amore, gelosia e solidarietà, si scontrano e si rovesciano davanti a un pubblico estasiato, manipolato, che chiede ancora, che vuole emozionarsi, che si commuove, si diverte e alla fine chiede grazia per il toro. E sempre alla fine, sull’ultimissima scena, grida al capolavoro. Scelto dalla Spagna per rappresentarla agli Oscar. Anteprima italiana al Torino Film Festival.
VOTO: 5/5
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