Dopo il dittico cinematografico “Immaturi”, l’ultima fatica di Paolo Genovese,”Una famiglia perfetta”, appare come un film ancora una volta giocato sullo stravolgimento di un avvenimento comune a tutti, da tutti atteso e che sempre si ripete uguale: l’esame di maturità nel primo, il giorno di Natale nell’altro.
Tanti i temi affrontati e tante le domande poste al pubblico. La prima traspare dal titolo: esiste la famiglia perfetta? Attraverso un rocambolesco scambio di ruoli, un mare di vicissitudini e colpi di scena inaspettati e insospettati, Paolo Genovese sembra rispondere: non esiste. E’ questo un tema noto alla cultura italiana da sempre: lei, la famiglia, quella che in Italia più che altrove è sotto i riflettori, lei che è inorridita e al tempo stesso elettrizzata dai suoi stessi cambiamenti. E’ una famiglia che sfila da cent’anni e più sul red carpet, abituata ai palcoscenici, ma che in questo film si scopre completamente piazzata su un palcoscenico, come una statua sul suo basamento di marmo. I sipari si alzano e si abbassano, a volte crollano, ma la bravura dei familiari-attori, la loro capacità d’improvvisazione, riesce sempre a rialzare il sipario e a continuare la commedia all’unisono grido di “the show must go on”. Paolo Genovese fa riflettere sulla realtà, su quanto sia strettamente inviluppata nella finzione e – cosa più assurda – su quanto questo avvenga nel luogo che dovrebbe essere il più naturale, dove ci si dovrebbe sentire “a casa”. La “home sweet home” è in questo caso ribaltata in un teatro, amaro palcoscenico di una vita costruita a tavolino, curata nei minimi dettagli, in cui nulla è vero – perfino la casa, che come si scoprirà alla fine è stata fittata -, recitata sulla scorta di un copione che non accetta errori, non accetta ripensamenti: la famiglia “deve” essere perfetta.
“Una famiglia perfetta” non riflette solo sul ruolo della famiglia, ma anche sulla recitazione. Il cinema diventa un “meta-cinema”, nel quale gli attori si interrogano sul proprio ruolo: c’è chi è disposto ad entrare nel Grande Fratello perché non conta il mezzo, ma il risultato col quale si consegue il successo (Pietro, interpretato da Eugenio Franceschini); c’è poi chi crede che la recitazione sia la vita ed è per questo che deve accettare che il mestiere di attore sia pieno di imprecisioni e imprevisti proprio quanto la vita (Luna, il personaggio di Eugenia Costantini). La morale sembra essere che è difficile accettarlo, ma laddove avviene questa presa di coscienza, la recitazione può prendere il suo giusto verso. Ed è proprio qui la simbiosi: la recitazione degli attori svela quale sia il senso della vita a Leone (Sergio Castellitto) e la vita che lui cerca e da cui fugge svela agli attori quale sia il senso del loro recitare. Il prezzo da pagare è un’ospite terrorizzata dalla famiglia in cui si trova per caso, un suicidio nella vigilia di Natale finto quanto il resto, due bambini con vite opposte che per due giorni giocano a vivere insieme, due ragazzi con speranze comuni e idee diverse che si scoprono innamorati. Tutto questo giocato su una bellissima trama in cui i fili della tela s’incrociano e si scrociano in un ricco crocevia d’emozioni. Un cast sapientemente studiato con un eccellente Sergio Castellitto e un Marco Giallini sua degna spalla, con l’esordiente Eugenio Franceschini che supera appieno la prova; non minori le presenze femminili di Ilaria Occhini, Claudia Gerini, Carolina Crescentini e l’esordiente Eugenia Costantini.
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