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Un Obama repubblicano per il 2016

gop-reddi Gianmarco Botti

Si è aperto ufficialmente, con l’Inauguration Day, il secondo tempo dell’era Obama. Altri quattro anni di leadership democratica, altri quattro anni di sfide importanti per l’America, in cui il presidente che nel 2008 promise “change” e “hope” dovrà rendere il cambiamento concreto, la speranza possibile più di quanto non sia riuscito a fare nel suo primo mandato. D’altronde, appena rieletto, lo ha assicurato: “Il meglio deve ancora venire”. Parole che suonano come una beffa alle orecchie dei Repubblicani, per i quali il peggio è arrivato da un pezzo e sembra non avere nessuna intenzione di togliere il disturbo: dopo averle provate tutte per cacciare dalla Casa Bianca l’avversario del secolo, il presidente nero e “socialista”, ed essere usciti con le ossa rotte dalla competizione del 6 novembre, gli eredi di quello che fu il Grand Old Party hanno ora davanti a loro altri quattro anni di passione. Lacerati dal conflitto interno fra la componente moderata e gli estremisti dei Tea Party (che da ultimo si è rivelato in tutta la sua drammaticità nel voto sul fiscal cliff, il baratro fiscale), emarginati nel dibattito pubblico da mutamenti sociali che non riescono ad interpretare (lo storico sì ai matrimoni gay e alla marijuana libera passato con referendum in diversi stati, i primi segnali di un orientamento dell’opinione pubblica a favore della limitazione dell’uso delle armi), i Repubblicani sono oggi un partito allo sbando, senza alcuna idea di cosa fare del proprio futuro. Per invertire la disastrosa tendenza delle ultime due tornate elettorali e poter ambire seriamente alla riconquista di Washington nel 2016, avranno bisogno di un radicale ripensamento di strategia, un’attenta disamina degli errori compiuti negli ultimi dieci anni e un’autocritica serrata. Finora non s’è visto niente del genere, e anche ciò che sulle prime potrebbe sembrare un timido accenno di autocritica ha in realtà tutta l’aria di una resa dei conti. Basta leggere le prime parole con cui il sito di Fox News, voce del mondo conservatore, ha voluto dare sfogo alla sua amarezza a poche ore dalla riconferma di Obama: “Niente più Romney, niente più McCain, niente più Bush. C’è una nuova generazione di Reagan e Gingrich là fuori da qualche parte”. Che tradotto significa: basta candidati d’apparato, basta moderati, la prossima volta bisognerà puntare su un vero conservatore, di quelli che piacciono al “popolo repubblicano” e sanno parlare al suo cuore, senza ambiguità o mezze misure. Ora, è comprensibile che dopo una sconfitta a prevalere siano la rabbia e la delusione, e che le reazioni a caldo non siano le più obiettive, ma se adesso il Gop sbagliasse ad interpretare le ragioni dell’insuccesso e imboccasse nuovamente le strade del passato, si condannerebbe a farsi del male ancora per molti, molti anni. Tanto per cominciare, le parole di Fox tradiscono un bel po’ di confusione: cos’ha a che fare Ronald Reagan, il grande presidente, con la figura fallimentare di Newt Gingrich, ex speaker della Camera già battuto nelle primarie del 2012, uno dei personaggi più grotteschi del panorama conservatore degli ultimi anni? E poi, che c’entra Bush con Romney e McCain? Non era forse lui, George W., l’enfant prodige della destra evangelica, il “vero conservatore” che sapeva parlare alla pancia degli americani? Degli sfaceli dell’era Bush gli Stati Uniti stanno ancora raccogliendo i cocci, e il Partito Repubblicano in particolare ha pagato un conto altissimo per l’impopolarità del suo presidente, la cui ombra si è stesa inesorabile sulle sconfitte del 2008 e 2012. Niente più Bush e siamo d’accordo (anche se il piccolo di casa, il cinquantanovenne Jeb, ex governatore della Florida, già scalda i motori per il 2016).
Schermata 2013-01-27 a 12.22.53Ma McCain e Romney sono un’altra cosa, loro sì che sono moderati e per questo all’ultraconservatrice Fox non sono mai andati a genio: il primo è un repubblicano d’altri tempi, centrista e pragmatico com’erano i Repubblicani negli anni di Eisenhower, di cui condivide il profilo militare e patriottico e la predilezione per gli atteggiamenti bipartisan; il secondo, il miliardario mormone dai modi tanto eleganti da apparire quasi “democratici”, è stato dipinto spregiativamente dai suoi competitors più infiammati (Gingrich in testa) come un “liberal del Massachusetts” per aver governato uno stato a maggioranza democratica dialogando con i progressisti. Ma che sia stata la “moderazione” il motivo della loro sconfitta è tutto da dimostrare. Certo, in campo repubblicano una certa dose di “estremismo” è necessaria per galvanizzare la componente evangelica fondamentalista, ma si sa che è al centro che si gioca la partita nazionale, rassicurando i moderati e convincendo gli indipendenti. Pertanto, McCain e Romney sono andati più vicini alla vittoria di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi candidato dei Tea Party e, semmai, è stata proprio la scelta dei pasdaran Sarah Palin e Paul Ryan come compagni di viaggio a pregiudicare la loro corsa. Ma questo Fox non lo ammetterà mai. Come non ammetterà mai che il vero problema che i Repubblicani hanno incontrato nelle ultime due sfide elettorali, il fattore decisivo della loro disfatta, non si chiama Romney o McCain, bensì Barack Obama. Un avversario straordinario (in senso letterale) per carisma e capacità comunicativa, fascino personale e potere evocativo della sua storia di figlio del sogno americano. Obama è il presente e il futuro di una nazione che si fa sempre più multietnica, in cui le vecchie minoranze (afroamericani, ispanici) sono oggi maggioranza e per la prima volta relegano in una posizione di inferiorità numerica (e di qui a poco culturale) il “maschio bianco protestante”, non a caso l’ultimo baluardo del Partito Repubblicano. Di fronte a tutto questo, McCain e Romney rappresentano il passato. E allora, invece di riesumare vecchie glorie sepolte da un pezzo (Ronnie Reagan è irripetibile) o rincorrerne gli improbabili epigoni (basta Gingrich), il Gop dovrebbe mettersi in cerca del proprio Obama, tanto più che nel 2016 non sarà di nuovo lui, il presidente in carica, l’avversario da battere. Un Obama repubblicano significa una figura nuova, fresca, capace di trasmettere un messaggio di speranza e cambiamento rivolto a tutta la nazione, al di là dei settarismi e dello spirito di parte, uscendo dai confini tradizionali della destra come Obama è uscito da quelli della sinistra: uno che sappia parlare al proprio partito ma anche agli indipendenti, ai giovani e alle donne, ai gay e alle minoranze religiose, e soprattutto alle (ex) minoranze etniche. Un trascinatore in termini comunicativi, perché, e in questo bisogna dare ragione alla Fox, obiettivamente McCain e Romney erano troppo ingessati per suscitare emozioni. C’è un personaggio del genere all’orizzonte? Forse. Ma di sicuro nei prossimi anni molte cose si chiariranno. Per il momento vale la pena di tenere d’occhio almeno tre fra gli esponenti più in vista del GOP, tre stelle nascenti che hanno già fatto parlare di sé nella campagna del 2012 e che di sicuro giocheranno un ruolo di primo piano nella prossima.

Chris Christie, governatore del New Jersey, affronta insieme ad Obama l'emergenza provocata dall'uragano Sandy

Chris Christie, governatore del New Jersey, affronta insieme ad Obama l’emergenza provocata dall’uragano Sandy

Il primo è Chris Christie, governatore del New Jersey, che l’anno scorso è finito per due volte sotto i riflettori: ad agosto, quando la convention repubblicana gli ha affidato il cosiddetto keynote speech, il discorso introduttivo che già nel 2004 fu il trampolino di lancio delle ambizioni presidenziali di Obama, allora semisconosciuto senatore dell’Illinois; a fine ottobre, quando si è trovato al fianco del presidente per affrontare i danni provocati dall’uragano Sandy, abbattutosi con particolare violenza proprio sul New Jersey. In quell’occasione Christie espresse un convinto apprezzamento per l’operato di Obama, da lui definito “eccezionale”, e fu per questo duramente criticato dai compagni di partito, che videro in quell’elogio a pochi giorni dal voto un vero e proprio spot elettorale per l’avversario. “Se il presidente fa qualcosa di buono, io lo riconosco”, fu la replica di Christie, che, come governatore di uno stato tradizionalmente democratico, non è nuovo ad aperture bipartisan e gode di una notevole stima anche al di fuori del suo partito. Padre irlandese e madre italiana, 50 anni e 150 kg di pura energia, Christie sarebbe decisamente un candidato “di peso” in una futura competizione elettorale, capace di attirare il voto dei moderati e di gruppi sociali fino ad ora lontani dal Partito Repubblicano, come gli immigrati di seconda generazione. Perfino l’obesità potrebbe diventare un elemento a suo favore, dando alla sua candidatura il significato di una nuova sfida della “diversità”, dopo l’elezione del primo presidente nero della storia (obeso per la verità era anche William Howard Taft, in carica dal 1909 al 1913).
Paul Ryan (a destra) insieme all'ex candidato repubblicano alla presidenza Mitt Romney

Paul Ryan (a destra) insieme all’ex candidato repubblicano alla presidenza Mitt Romney

Di Paul Ryan, deputato del Wisconsin, si è detto e scritto di tutto nei mesi passati. Raramente prima d’ora un candidato alla vicepresidenza era stato così al centro dell’attenzione: scelto da Romney per fare breccia nell’estrema destra religiosa a lui sempre rimasta ostile, per tutta la campagna Ryan è stato il bersaglio principale degli attacchi dei Democratici, il “vero pericolo”, quello più insidioso, nascosto dietro il sorriso affabile e rassicurante dell’ex governatore del Massachusetts. Era lui, nemico giurato dell’aborto, propugnatore di una ricetta economica ultraliberista che puntava a demolire dalle fondamenta la riforma sanitaria di Obama, lo zoccolo duro del team repubblicano, nel bene e nel male. Secondo alcuni sarebbero state proprio le sue idee radicali ad azzoppare la corsa di Romney, mettendo in fuga i moderati e l’elettorato anziano, tradizionalmente vicino al Gop, ma spaventato da un’eventuale soppressione dell’assistenza sanitaria statale. Secondo altri l’oratoria appassionata di Ryan, il suo carisma giovanile e la nettezza delle sue posizioni avrebbero dato un contributo fondamentale alla partita repubblicana, avvicinandola di più ai sentimenti della gente e supplendo all’evidente legnosità di Romney. Fatto sta che Ryan le elezioni le ha perse ed è difficile dire se da questa prima esperienza elettorale egli esca più “lanciato” o “bruciato”. Non sembra avere dubbi il suo compagno di corsa, che nel “discorso di concessione” con cui ha ammesso la sconfitta ha parlato di Ryan come della “scelta migliore che abbia mai fatto” e si è detto sicuro che egli “continuerà a dare il suo contributo per il bene della nostra nazione”. Più che un auspicio una benedizione, e certamente Ryan, che ha appena 43 anni, non si lascerà scappare l’occasione per provarci ancora, stavolta da protagonista.
Marco Rubio, senatore repubblicano della Florida

Marco Rubio, senatore repubblicano della Florida

Ma la vera sorpresa repubblicana dei prossimi anni si chiamerà Marco Rubio. Rimasto dietro le quinte nella campagna elettorale del 2012, più volte è sembrato che fosse in procinto di salire sul palco: si era parlato insistentemente di lui come possibile candidato vicepresidente al fianco di Romney, ma poi è stato scelto Ryan; si pensava che sarebbe stato lui a tenere il keynote speech alla convention di Tampa, e invece è toccato a Christie. Certo, il suo discorso l’ha tenuto, acclamato dalla platea repubblicana riunita nella sua Florida, che due anni fa lo elesse senatore con un vero e proprio plebiscito. Ma forse non aver combattuto in prima linea una battaglia che si è poi rivelata perdente, sarà per Rubio un notevole vantaggio nel momento in cui si preparerà a combattere nuove battaglie, spalancandogli davanti scenari possibili di vittoria: se nelle ultime elezioni Ryan si è alienato il consenso dei moderati e Christie ha perso la fiducia dei conservatori, Rubio resta una carta ancora tutta da giocare per il 2016. Giovanissimo (appena 41 anni), di bell’aspetto, figlio di esuli cubani sfuggiti al castrismo, è stato ribattezzato l’“Obama latino” per via delle sue origini ispaniche. Fu lui, all’indomani della sconfitta, ad avvertire che l’impegno fondamentale del Gop di qui al 2016 dovrà essere quello di “ripartire dai latinos”, da quella parte d’America giovane e in continua crescita che a novembre ha votato per il 70% per Obama e senza la quale in futuro nessun candidato potrà avere serie possibilità di vincere. E Rubio, che piace molto anche ai Tea Party, potrebbe essere l’uomo giusto per siglare un’unione fra la vecchia destra WASP e la nuova realtà ispano-americana, promuovendo in campo repubblicano quel salto verso il futuro che Obama ha significato per i Democratici. Inoltre, e non è un dettaglio da poco, Rubio viene dalla Florida, stato a fortissima presenza ispanica, uno dei più pesanti in termini elettorali e quello che più di tutti in questi anni ha fatto da ago della bilancia nella corsa alla Casa Bianca.

È ancora presto per dire chi sarà il candidato repubblicano del 2016. Ma che si tratti di Christie, di Ryan o di Rubio, la cesura con il recente passato sarà comunque netta. Tutti e tre giovani, dopo le candidature “attempate” di McCain, 72 anni, e Romney, 65. Tutti e tre “nuovi”, com’era Obama all’inizio della sua avventura presidenziale, nuovi abbastanza da poter rivendicare estraneità assoluta ai disastri di Bush, dai quali invece i candidati del 2008 e 2012 non sono mai riusciti a prendere completamente le distanze. Se dall’altra parte ci saranno il vicepresidente in carica Joe Biden o la Clinton (data per meno probabile a causa degli ultimi acciacchi), loro potranno presentarsi come la vera novità, l’alternativa all’establishment di Washington e a chi ha governato in questi anni. I Democratici sulla difensiva, impegnati a rivendicare i meriti dell’amministrazione Obama; loro in posizione d’attacco, col vantaggio di poter proporre un “change” credibile al loro elettorato, dopo otto anni di presidenza democratica. E questo sarà il Gop 2.0, nato dalle ceneri del partito di Bush e dall’assorbimento della lezione di Obama. Ma su quest’ultimo punto, il più delicato, i Repubblicani hanno ancora molta strada da fare.