Ci sono posti, in tutte le città, che sembrano piccoli limbi sospesi di terrore. Quartieri “bene”, attraversati da un’unica via desolata, avvolta nel buio anche di giorno, silenziosa eppure piena di brusii, rumorini che celano presenze nascoste pronte a balzarci addosso se non usciamo da quella strada al più presto. Ci sono posti in tutti i quartieri che fanno paura – e che a volte vengono attraversati per far prima. Come quello del racconto che state per leggere.
“La scorciatoia”
Marco non era un tipo superstizioso, e nemmeno particolarmente pauroso, eppure attraversare quella stradina tortuosa lo preoccupava sempre. Si trattava di quattro tornanti avvolti nel buio, con pochi lampioni alcuni dei quali anche rotti, che si costringeva spesso a percorrere, rigorosamente a piedi, quando tornava dal lavoro a piedi per fare prima. Non l’aveva mai vista di giorno ma era sicuro che fosse ugualmente tetra e scura. E così ogni volta scandiva il suo percorso a tappe, quattro per la precisione, come i suoi tornanti.
Ora era ancora più in ansia del solito, da quando si era sparsa la voce che un rapinatore particolarmente violento girava come un cane sciolto. Chissà perché si era da subito immaginato una delle case abbandonate di quella via come il suo nascondiglio: quello era un quartiere per bene, c’erano strade molto più malfamate, eppure lui lo visualizzava là, nascosto nell’ombra.
Accelerò così il passo più del solito, sperando di arrivare intatto alla strada principale.
Primo tornante: quello con la panoramica sul nulla. Di giorno forse c’era una bella vista, ma con quel buio era praticamente impossibile capire su cosa si affacciasse il basso muretto che costeggiava il tornante. Ogni volta che ci passava affianco fantasticava sul paesaggio, non credeva si vedesse il mare, più probabilmente buona parte della città, come da qualsiasi veduta lì dai quartieri “alti”, ma di solito preferiva andare al di là con la fantasia e immaginare paesi sovrannaturali, terre sconfinate o, perché no, una vista privilegiata sull’aldilà.
Secondo tornante: Marco si fermò di colpo. Si sentiva un cane abbaiare ferocemente al di là della curva, forse su qualche balcone, chiuso fuori dal padrone per evitare che sparpagliasse bisogni in giro per la casa. Ma se fosse stato un cane randagio? libero e, soprattutto, in cerca di qualcosa da mangiare? Dalla “voce” sembrava grosso, e anche se ricordava bene quel detto che diceva “cane che abbaia non morde” pensava che c’era poco da stare allegri e molto da stare attenti.
Se il cane era sciolto voleva dire che stava anche camminando. In questo caso erano due le possibilità: o andava nella sua stessa direzione e quindi, con un po’ di fortuna, avrebbe potuto non incontrarlo mai; o veniva verso di lui, e in tal caso restare fermi non sarebbe servito a nulla, lo scontro ci sarebbe stato comunque. Tanto vale andare incontro al proprio eventuale destino, piuttosto che aspettare passivamente che ci piombi addosso.
Marco ricominciò a camminare, svoltò la curva e vide il cane protestare vivacemente su un balcone per essere stato escluso dal calduccio casalingo. Una preoccupazione inutile, che comunque gli fece accelerare gradualmente il passo.
Terzo tornante: la grande villa abbandonata, quasi sorridente nel ghigno disegnato dalle imposte semi-distaccate. Il pensiero tornò al rapinatore. Se fosse stato tutto il tempo dietro di lui? pronto a saltargli addosso all’ultimo tornante, quello più stretto? Cominciava a sudare sotto la camicia. Avrebbe voluto togliersi la giacca, ma pensò che nel caso di una fuga improvvisa da qualcosa (o qualcuno?) gli avrebbe dato soltanto impaccio.
Quarto tornante: la chiesa. C’era davvero gente che andava in quella grande chiesa nascosta? Situata in una piazzetta molto piccola, era l’ultimo posto dove, in caso di attacco di qualcuno (o qualcosa?) avrebbe potuto reagire. Dopo venivano gli ultimi trecento metri, avvolti da mura, stretti, con le grosse pietre scivolose al posto dell’asfalto.
Iniziò a correre. Non c’era un motivo preciso, se non la voglia di arrivare sulla grande strada principale al più presto e la sensazione particolarmente marcata che, se fosse dovuto succedere qualcosa in quella scorciatoia, quella era la sera giusta.
Correndo vide qualcosa con la coda dell’occhio. Non sapeva bene cosa (un’ombra?). Scivolò improvvisamente e si fece male al polso – non tanto da impedirgli di rialzarsi velocemente e ricominciare a correre.
Ancora cinquanta metri e l’ultima tappa sarebbe finita. E tutte le paure irrazionali di quella sera sarebbero scivolate nel più docile dei sonni.
Finalmente. Le luci della strada, i lampioni alti sui marciapiedi, rassicuranti nel loro giallo canarino; Marco smise di correre, si tolse la giacca e se la mise sottobraccio, attraversò la strada tirando un sospiro di sollievo.
Mentre apriva il cancello ripensò sorridendo a quanto era stato sciocco mettersi a correre all’improvviso. In quella strada non c’era nessuno e forse lui era stato l’unico a percorrerla durante l’intera settimana.
Entrò nell’ascensore. Non vide bene in faccia l’uomo che già lo occupava, ma a prima vista gli sembrò che non fosse un inquilino di quel palazzo. Pochi istanti non gli furono sufficienti a collegare i fatti. Una prima pugnalata, con un paio di forbici, arrivò all’addome, la seconda, quella che sarebbe stata mortale, fra il collo e la spalla destra.
Fece appena in tempo a percepire che gli venivano sfilati portafoglio e orologio e l’iPhone dalla tasca posteriore.
I suoi ultimi pensieri andarono alla strada che (ora sì, ne era convinto) era stato un posto solo suo, l’unico dove avesse avuto sempre il tempo di pensare e fantasticare. L’ultimo briciolo di conoscenza andò alla panoramica sul nulla: forse si era sbagliato. Da lì si vedeva il mare.