Moda e danno. Lo scorso 20 novembre 2012, Greenpeace ha pubblicato un dossier titolato: “Toxic Threads: The Big Fashion Stitch-Up”. Il resoconto analizzava il contenuto delle sostanze chimiche pericolose nelle intere collezioni dalle grandi catene di moda. La volontà di indagare in profondità circa la presenza di sostanze tossiche è scaturita dal successo della campagna Detox, la quale ha svelato la connessione tra l’industria tessile e l’inquinamento delle acque; l’inchiesta è stata ampliata e nella lista nera sono finiti ben venti marchi globali, tra cui Armani, Levi’s e Zara. I dati contenuti nel briefing sembrano essere eloquenti: nel mondo si producono ogni anno circa 80 miliardi di capi di abbigliamento contenenti piccole quantità di sostanze chimiche che, seppur ammesse come i NPE (nonilfenoloetossilati), sono ugualmente dannose. Tali sostanze, accumulandosi negli scarichi, inquinano in tempi sempre più brevi. E la causa di tutto ciò sono proprio le multinazionali della moda, costrette da un mercato sempre più in fibrillazione a produrre grosse quantità di abiti nel più breve tempo possibile favorendo pratiche irresponsabili – l’utilizzo di scorciatoie sia in termini di costi ambientali che di lavoro. Oltre all’ormai famosa NPE, il rapporto di Greenpeace ha mostrato in che modo anche altre sostanze contenute negli indumenti finiscono inevitabilmente negli scarichi delle manifatture tessili. Il settore non è trasparente e non rispetta le direttive internazionali. Basti pensare che in ventisette Paesi, compresa l’Italia, sono stati acquistati presso rivenditori autorizzati ben centoquarantuno capi di abbigliamento nel solo mese di aprile 2012. Tutti i capi erano stati prodotti in almeno diciotto Paesi – soprattutto del Sud del mondo; tra questi centoquarantuno, di venticinque capi non è stato possibile capire il Paese di produzione e quindi indagare sulla loro fabbricazione. Gli NPE sono stati trovati in ottantanove articoli con una concentrazione che varia da poco più di 1 ppm (parti per milione) fino a 45.000 ppm; in ben venticinque dei ventisette Paesi controllati sono in vendita indumenti con un’alta concentrazione di NPE e nel 20% dei campioni sono stati riscontrati 100 ppm. Livelli così elevati di sostanze nocive non risparmiano i grandi marchi: C&A, Mango, Levi‘s, Calvin Klein, Zara (un campione), Metersbonwe, Jack & Jones e Marks & Spencer . I ftalati come plastificanti nella stampa sono stati utilizzati in due prodotti per Tommy Hilfiger e in un prodotto sia per Armani sia per Victoria’s Secret. I coloranti azoici, sostanze cancerogene, sono contenuti in due capi d’abbigliamento targati Zara. La lista non è finita qui: screening chimico ha isolato molti altri prodotti chimici, alcuni dei quali classificati come “tossici” o “molto tossici per gli organismi acquatici”. Greenpeace con la sua campagna Detox chiede l’eliminazione completa, entro il 2020, dell’uso di sostanze chimiche nella produzione del tessile e la sostituzione di queste con alternative ad impatto zero sull’ambiente e sull’uomo. Precedenti inchieste di Greenpeace si sono concentrate sul danno che queste sostanze arrecano nell’ambiente. In Cina, interi corsi d’acqua sono ormai danneggiati dal fluire nelle acque di sostanze inquinanti. Un’altra inchiesta ha mostrato come un’elevata percentuale di residui di NPE venga velocemente rilasciata dai vestiti durante il semplice lavaggio domestico e ciò provoca la diffusione dei veleni ovunque. Questi prodotti possono inquinare l’ambiente circostante anche quando sono dismessi. I centri di raccolta d’indumenti per chi ne ha bisogno sono sempre più spesso covo di ftalati.
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