Ormai la data delle elezioni è vicina e l’aria è particolarmente pesante tra i candidati alle elezioni politiche nazionali. Colpi bassi, scandali e demagogia sono ormai all’ordine del giorno. Purtroppo, non ci sono abbastanza novità così esilaranti: i concorrenti sembrano stressati e forse sono troppo distratti dai seggi al Senato per dare ogni energia alla competizione. Tranne che per qualche frase “shock” e lo scandalo Mps, tutto è perfettamente omogeneo con l’ultimo anno di governo tecnico. Che la corsa per Palazzo Madama abbia ridotto i candidati ad un mero calcolare come accaparrarsi solo i votanti incerti, invece di entusiasmare i voti già sicuri e rendere la campagna elettorale più animata? In effetti la situazione per le poltrone a Corso Rinascimento è davvero in bilico e i risultati sono davvero imprevedibili per immaginare uno scenario che non sia una futura collaborazione (molto incerta a sua volta) tra la coalizione del professor Monti e il centrosinistra. Nichi Vendola, infatti, non acconsentirebbe di buon grado a doversi sedere a discutere allo stesso tavolo di Gianfranco Fini, così come Bersani non avrebbe certo piacere a cedere Palazzo Chigi al premier ancora in carica. La coalizione Pd-Sel-Psi raggiunge (secondo le stime del 3 Febbraio) il 36% dei votanti: numeri che le altre coalizioni possono solo desiderare. Quindi, perché cedere alle condizioni del Terzo Polo? Il PdL, con ogni buon proposito è al 19% nei sondaggi. Unendosi con la Lega, Storace e affini, raggiunge poco più che il 28%. Ma questo vorrebbe dire – in una prospettiva con nuovi voti e diversi rientri dal movimento di Grillo – non rompere legami con nessuno, cedere a diverse condizioni e non tirare troppo la corda con Maroni, il quale non teme di gelare il Cavaliere come sul tema condono. Quanto il 18,5% di voti in Lombardia (contro l’11 della Lega) permette all’ex premier di inasprire i rapporti con il Carroccio? Senza il Popolo delle Libertà il prossimo governatore lombardo potrebbe non essere il segretario padano (al 40%) bensì il democratico Ambrosoli (38%). La Lombardia così (con i suoi ben quarantanove posti al Senato) andrebbe al Pd che avrebbe la partita in pugno. Bersani, infatti, può ben sperare nella vittoria di Nicola Zingaretti – candidato Pd nel Lazio – che punteggia il 40% dei voti contro il 32% di Storace (appoggiato dal PdL). Con i ventotto seggi della regione della Capitale e i venticinque seggi in caso di vittoria in Sicilia, anche se venissero a mancare i ventinove seggi campani, il Partito Democratico potrebbe governare senza cedere a patti con nessuno. Se Berlusconi invece prendesse la Lombardia, al Senato regnerebbe l’ingovernabilità. Quindi, come è evidente, è nell’interesse di entrambi i leader del centrodestra non tagliare le fila del rapporto.
Tutti questi calcoli, effettivamente danno non poco al cervello, e bisogna dar fondo a tutta la propria ars retorica per non rovinare (anzi, creare) precari equilibri. Eppure siamo stati ben abituati ai continui scontri delle campagne elettorali. Non ultimo quello agguerrito tra Renzi e praticamente tutta la classe dirigente del centrosinistra, finito in una pace produttiva per il futuro. Ma come? I nostri adorati politici hanno perso la loro voglia di divertirci? Eppure i cari scalda-poltrone non hanno dimenticato il loro savoir-faire, poiché ancora capaci di sordidi stratagemmi nauseanti, di promesse e affermazioni che rasentano l’assurdo. D’altro canto il Pd resta coerente: sempre immobile, inamovibile, in ricordo dei bei vecchi tempi e dimenticandosi come i voti si possano anche perdere: proprio come in passato. Berlusconi è invece in tutte le radio, in tutte le trasmissioni televisive, talk-show; i giornali titolano almeno una volta il suo nome ogni giorno. Il suo delirio mediatico è senza confini, né conosce misure; la sua capacità di prendere per lo stomaco il Paese resta la sua arma migliore. Un populismo che più vivo non si può e che rientra nei margini solo per le “lacrime e sangue” versati dai cittadini nell’ultimo anno. “E pur si muove!”, direbbe Galilei: il PdL è risalito al 19% nei sondaggi, dall’11/12% a cui era immobile prima della ridiscesa in campo del Cavaliere. Il professor Monti, dal canto suo, continua ad essere poco chiaro nello schierarsi. L’unica cosa abbastanza evidente è che l’unica cosa che cerca di fare è proprio di non essere qualificabile in alcuno schieramento politico, così da “prendere” un po’ ovunque e nascondendosi dietro il falso velo della terzietà e delle definizioni di destra e sinistra ormai “superate”. Dovrebbe, invece, preferibilmente chiarire l’entità dei suoi rapporti con il partito di Bersani – che ama punzecchiare con frasi scomode o fuori luogo (come quella sulla fondazione nel 1921 del Partito, anno di fondazione, invece, del PCI) – e rendere palesi i suoi accordi con i quattro Cavalieri dell’Apocalisse (Casini, Fini, Montezemolo e Ichino): è consapevole a quale bacino elettorale sta dando il volto? Si presume di sì, date le indubbie capacità intellettuali del premier (sempre che il potere non gli abbia dato alla testa). Purtroppo la stessa proposta di collaborazione con il PdL (ovviamente con l’esclusione di Berlusconi) – proposta ritirata dopo le parole dell’ex premier su Mussolini durante la giornata della memoria – è indice di quella “moderazione” a cui evidentemente aspira l’ex rettore della Bocconi, nonostante il riavvicinamento delle ultime ore con il Pd. I bacini elettorali che con queste sue stravaganti mosse cerca di accaparrarsi sono chiari – così come è chiaro che il leader italiano più acclamato dal Ppe punti agli indecisi e ai militanti del M5S di qualsiasi derivazione politica. Ma l’arguzia con cui taglia tutti i suoi avversari non è accompagnata da quella sobrietà e coerenza a cui ci aveva abituato (e su cui quasi il 15% degli italiani punta ancora per i prossimi cinque anni, votandolo). Bersani sfodera la carta finale chiamando Matteo Renzi in campo e sperando in un confronto tv con cui – in assist con Monti – mettere alle strette il padre-padrone pidiellino insieme alle sue stravaganti proposte. Ma il caimano è troppo furbo per lasciarsi mettere alle strette. Riusciranno i suoi sfidanti ad essere più furbi? Staremo a vedere.
In qualsiasi caso, saranno gli italiani ad essersi abituati a vent’anni di colpi di scena non conclusi durante l’equilibrio del terrore in clima guerra fredda nell’anno di governo tecnico. D’altronde, se sono diventati davvero così fiacchi da non trovar alcun modo di impressionarci con nuove barzellette e proposte economiche per far crollare l’ordine europeo (o ancor meglio sbalordirci con un piano di rinnovamento serio per i prossimi cinque anni anni) ci facciano un piacere: che mandassero qualcuno a riprendere gli ombrelli di Altan poiché il Paese non ne può davvero più. C’è da ricordare che diciannove operai Fiom di Pomigliano sono a casa. Stipendiati, ma a casa e con la dignità sotto i piedi. Ma se voi ve ne andrete con l’ombrello tra le gambe, noi ve lo promettiamo: riprenderemo i costumi in stile Tafazzi. Siamo fatti così.
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