TRAMA: Montreal – Barney Panofsky (Paul Giamatti), produttore di tv spazzatura ridotto alla miseria della solitudine, dell’alcolismo, dell’Alzheimer incipiente e dei sensi di colpa, rievoca la sua vita sciroccata e tragicomica, attraverso le sue tappe fondamentali: la gioventù bohemienne a Roma; l’amicizia con lo scrittore tossico Boogie (Scott Speedman); i matrimoni falliti con Clara (Rachelle Lefevre), morta suicida, con “la seconda signora Panofsky” (Minnie Driver), stupida e mai amata, e con l’amore della sua vita, Miriam Grant (Rosamund Pike), con cui costruisce una famiglia prima di distruggerla; il rapporto col padre poliziotto Izzy (Dustin Hoffman); la misteriosa morte di Boogie, di cui è sospettato essere l’assassino.
GIUDIZIO: Portare con successo sullo schermo il divertente e scanzonato romanzo di Mordecai Richler (1931-2001), mitico cult letterario degli anni ’90, era un’impresa impossibile, specialmente per l’impianto assolutamente anticinematografico, frammentario, scombussolato del geniale scrittore canadese. E infatti né il regista Richard J. Lewis né lo sceneggiatore Michael Konyves ci sono riusciti del tutto. Pur piacevole e simpatico, dal precedente letterario riprende solo a metà il cinismo di fondo, l’umorismo spietato e scorretto, la caratterizzazione del folto parco personaggi. Fedele quanto serve al libro, cambia solo per due particolari, non indifferenti: Roma al posto di Parigi (influisce la casa di produzione, l’italiana Fandango); l’assenza di Terry McIver, personaggio cruciale, autore di un romanzo su Barney tanto diffamatorio che questi deve rispondergli con una sua personale versione (qui il romanzo lo scrive un poliziotto, la versione di Barney non è neanche menzionata).
Non è una trasposizione del romanzo, ma una sua “normalizzazione”: perché se la trama è quello che è, almeno nel romanzo era filtrata da un linguaggio e da una forma brillanti, appassionanti, originali. Il film cerca di eguagliarne la ricchezza, ma non colpisce al cuore: è un film normale, su un uomo normale, con problemi normali, raccontato in modo normale. Inevitabile poi replicare il punto debole del libro di Richler: il patetismo stucchevole del finale, apologia sentimentale dell’uomo medio, inno (tardivo, non convinto) ai valori della vita e della famiglia. Nel romanzo Barney, col pretesto di dare la sua versione dei fatti sulla scomparsa di Boogie, divagava in un viaggio nella memoria, alla ricerca di un filo con cui collegare gli episodi, con cui spiegare l’utilità della sua vita: saltando da un argomento all’altro, aumentando la tensione e l’intrigo. Il film invece non ha né il pretesto né la scusa per raccontare una cosa grande e profonda come la vita di quest’uomo senza qualità. Per una volta l’ha vinta la letteratura: questa è materia da romanzo, al cinema serve altro. Non la vita d’un uomo qualunque, con le solite cose viste e riviste.
La forza del film, cioè del romanzo di partenza, è il suo protagonista: Barney, un simpatico perdente, sboccato e autolesionista, che della vita se ne frega altamente.
Il bravissimo Paul Giamatti, che ne riassume anima e corpo, regge da solo il film con un’interpretazione davvero perfetta e dolceamara, che gli ha già procurato un Golden Globe, e prossimamente – si dice – forse anche un Oscar: alla faccia di chi, dopo un decennio e passa di grandi prove, continua a considerarlo un outsider del cinema americano.
Sprecato, ma pur sempre bravo, il grande Dustin Hoffman, il cui personaggio risente troppo dei suoi trascorsi come padre di Greg Focker.
La colonna sonora di Pasquale Catalano oscilla tra il dolce e il pomposo, e nel finale cerca di sostituirsi agli attori.
VOTO: 3/5
Home » Cinema, News, Spettacolo » “La versione di Barney”: quando la letteratura fa meglio del cinema