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“Qualunquemente”: ridere dell’Italia per non piangerne non sempre funziona

qualunquemente_locandina2di Marco Chiappetta

TRAMA: Tornato da un lungo esilio forzato ai Caraibi, Cetto La Qualunque (Antonio Albanese), imprenditore ladro e arrogante, torna nel suo dissestato paesino calabrese, Marina di Sopra, dove ha costruito il suo laido business con abusivismi, imbrogli e violenze. Appreso a malincuore che la sua fortuna può essere deragliata dall’onesto candidato sindaco De Santis (Salvatore Cantalupo), decide di scendere anche lui in politica, fondando con parenti e amici lecchini il Partito du Pilu, propagandando a furor di popolo una politica come lui aggressiva, immorale, egoista, maschilista, filofascista e spiccatamente illegale.
GIUDIZIO: Ispirato al fortunato personaggio televisivo creato da Antonio Albanese nel 2003, e, molto più chiaramente, al quadro politico italiano dei poco gloriosi anni zero, il film di Giulio Manfredonia vorrebbe ispirarsi per asprezza e cinismo, al filone della commedia all’italiana e persino al neorealismo: non vi arriva, non ha la pretesa di essere un capolavoro né di restare a lungo nella memoria cinematografica, ma è solo un divertissement di puro umorismo scorretto, di pura cattiveria satirica, in un momento di crisi culturale e politica del (fu) Belpaese. Il passaggio dal piccolo al grande schermo non cambia nulla: il bravissimo Albanese accentua ancora di più la brutalità e la violenza del suo personaggio, portando fino all’estremo un’interpretazione amaramente divertita, espressionista, gigioneggiante. Un politico che si fa da solo, che “riflette” andando a troie, che usa le donne ma non i mezzi termini (“Non sono le donne che devono entrare in politica, ma la politica che deve entrare nelle donne”), che fa dell’illegalità una religione, dell’arroganza uno stile di vita: la ragione è nel priapico culto del fallo, nel mito del dongiovanni di provincia che assuefa femmine, maschi e mondo tutto alla sua volontà di potenza, alla sua sete di dominio: è sadico ma irresistibile cedere alla comicità di questo signorotto simil-Trimalcione, re di un fragile impero di carta.
Il film fa leva sulla teoria pirandelliana del comico, inteso come avvertimento del contrario: come nel teatro dell’assurdo, ribalta completamente ogni valore di normalità e legalità, dove l’unica legge è appunto quella del contrario. “Schierarsi a favore della legge? Ma è legale questa cosa?” chiede Cetto: nel suo micromondo corrotto e ignorante, è una domanda seria. Tutto il film si regge su questo umorismo grottesco, esasperato, esplicito: non sempre la formula riesce, qua e là si fa monotona, infastidisce pure. Ma quando Cetto entra in politica il film esce fuori dal suo macchiettismo cabarettistico, e diventa amara, inquietante critica di costume. Quasi perde l’aureola di comicità, e fa male ridere dei vizi del paese: non è più un film comico, ma un film dell’orrore. Il grottesco diventa realismo, sicché non si ride più, se non con disgusto. Il film ha il coraggio di raccontare senza vergogna i malesseri del paese, strizzando l’occhio a bunga bunga, brogli elettorali, raccomandazioni, promesse facete, ponti immaginari, donne-oggetto, appalti, abusivismi, evasioni fiscali, chi più ne ha più ne metta. Un pastiche dell’italico malcostume, che non risparmia nessuno: da una parte l’inevitabile parallelismo con la destra meridionale, il pagliaccismo ciarlatano e fallico del vanaglorioso e promiscuo Premier, il viscido stuolo di simil-berluschini e sboccate sgualdrine; dall’altra, l’etica buonista, paternalistica, grigia, impotente, gracilina, di tanta patetica sinistra che non sa e non può fronteggiare chi il potere lo fonda sulle urla, sulla prepotenza, sul machismo e sull’affarismo. La scena del confronto televisivo – sostenuto da un conduttore mostruosamente polimorfo, metà Vespa metà Fede – dà i brividi, non è più finzione, è guardarsi allo specchio. Meno bene il film quando accentua il suo spirito grottesco fino al non-sense, quello da facili risate: è il caso dello spin doctor elettorale interpretato da Sergio Rubini, un guru new age della politica fai da te, bozzetto surreale e non troppo convincente. Più amaro che divertente, è un pugno negli stomaci italiani già nauseati dalle cronache dei giornali: non è facile intrattenimento, ma doloroso esame di coscienza per chi la coscienza non l’ha più
Rischia forse, per i troppi richiami alla realtà, di essere un fenomeno passeggero, dimenticabile, un instant movie, una commediola trash confinata nei suoi eccessi, una testimonianza in più d’un’epoca dissoluta.
VOTO: 2,5/5