Secondo una chiave di lettura proposta più volte nel corso della campagna elettorale, quella del 24 e 25 febbraio sarebbe stata una sfida fra riformisti e populisti. Da una parte il centrosinistra di Pierluigi Bersani e la compagine centrista di Monti; dall’altra il Pdl berlusconiano e il MoVimento 5 Stelle di Beppe Grillo. E se le cose stanno così, non ci può essere dubbio su chi siano i vincitori e chi i perdenti. Ha vinto Beppe Grillo, con un boom straordinario che ha fatto del MoVimento 5 Stelle il primo partito italiano e che questa volta difficilmente il Capo dello Stato potrà dire di non aver sentito. Ha vinto Berlusconi, che molti consideravano politicamente morto, e che invece ha dimostrato di godere di ottima salute, contendendo al centro-sinistra il premio di maggioranza alla Camera fino all’ultimo minuto (benché, rispetto al 2008, il Pdl si sia lasciato alle spalle il 16% dei consensi). Ha perso Bersani, il superfavorito, il candidato dei progressisti incoronato dalle primarie dello scorso dicembre, che allo stato attuale non ha i numeri per formare una maggioranza in Senato; e, soprattutto, ha fallito il nuovo esperimento politico di Mario Monti, quella Scelta Civica che era nata dalla volontà del professore di “salire” in politica, e invece si è concretizzata in una deprimente discesa al 10%. Impossibile non vedere il dato fondamentale che viene fuori da queste elezioni, il fatto cioè che, sommando i voti di Grillo a quelli di Berlusconi, l’Italia appare dominata da una chiara, nettissima maggioranza populista. Ciascuno dia a questo termine l’accezione che preferisce, dispregiativa o neutra che sia. Ma non si può negare che, nonostante l’estrema frammentazione del voto e la conseguente ingovernabilità originate un quadro politico non più bipolare, bensì quadripolare, la maggioranza degli italiani abbia parlato forte e chiaro. E quel che ha detto è pressappoco questo: non ce ne frega niente dello spread e della disciplina di bilancio, delle riforme strutturali e degli impegni con l’Europa, del “non raccontiam favole” e della sobrietà, dei loden e dei giaguari; preferiamo sentire “tutti a casa!” e “vi restituirò l’IMU”, che la Merkel è brutta e cattiva e che forse è meglio tornare alla lira, che Equitalia va abolita e che il pericolo Grecia non esiste; ci piacciono i leader carismatici ed estrosi, poco importa se meno seri, anzi, meglio così, meglio che somiglino a dei comici (o magari lo siano davvero) piuttosto che a grigi amministratori di condominio o compassati ragionieri (anche se questi in fatto di conti e di governo magari se la cavano meglio). Questa è l’Italia al guado fra la Seconda e la Terza Repubblica e questi gli italiani, che passano dal berlusconismo al grillismo senza soluzione di continuità, fondendoli entrambi in un unico grande consenso populista che, se coalizzato, sarebbe in teoria la prima forza del Paese. Certo, differenze sostanziali fra il MoVimento grillino e la creatura berlusconiana ci sono e non vale neppure la pena di metterle in evidenza. Più interessante può essere invece trovare i punti di contatto fra due esperienze politiche che, se guardate da una certa angolazione, risultano una il prodotto dell’altra e tutte e due figlie di un comune rifiuto della politica in quanto tale. È stato Silvio Berlusconi per primo, nel lontano 1994, a presentarsi come il nuovo, il non-politico per eccellenza, il picconatore di una classe politica vecchia e corrotta, quella degli anni di Tangentopoli: Forza Italia, più “movimento” che partito, se confrontato con i “partiti pesanti” della Prima Repubblica, divenne allora il terreno di coltura di una nuova classe dirigente, trapiantata interamente dalla società civile, dalle aziende e dalle amicizie personali di Berlusconi. Una classe dirigente non unita in alcun modo dall’adesione a valori o a una tradizione politica comune, ma dal legame di fedeltà assoluta al “capo”, premessa di un generale indebolimento morale del mondo politico che ha raggiunto livelli nettamente superiori alla Prima Repubblica. Non che i fenomeni corruttivi, nel corso di questi venti anni, abbiano riguardato solo la destra, naturalmente; ma quando un singolo (un singolo uomo, un singolo partito che è tutt’uno con esso) si getta nel mucchio per nascondere lo sporco che si porta addosso, allora automaticamente tutto il mucchio diviene sporco. Ed è lì che nasce Grillo, lì che nasce il “tutti a casa!”. Se Berlusconi è riuscito nell’impresa di convincere gli italiani che i politici sono tutti uguali, Grillo si è fatto interprete della protesta generale e generalizzante contro questa classe politica, della quale invoca il completo azzeramento.
Se questa è la storia e comune è la radice dei populismi italiani, allora non devono sorprendere le notevoli convergenze che MoVimento 5 Stelle e Pdl riscontrano anche sul piano dei contenuti: la proposta grillina di un referendum sulla permanenza nell’euro traduce in realtà quell’inclinazione “autarchica” che Berlusconi non ha mai nascosto, e che interpreta bene il sostanziale disinteresse che l’italiano medio nutre per l’unità europea e le sue istituzioni; la retorica anti-stato, presente in entrambi i programmi nell’attacco ad Equitalia, ha poi sempre grande effetto quando si tratta di parlare alla pancia di un popolo che, come nota Eugenio Scalfari, “non crede e non ha mai creduto nello Stato e nelle istituzioni perché ha alle spalle un millennio di storia in cui lo Stato e le istituzioni che hanno governato parti del paese o l’ intero paese erano istituzioni straniere”. E proprio parlare alla pancia degli italiani è la specialità di Grillo quanto di Berlusconi. Arrivare dove gli altri leader non arrivano attraverso un linguaggio semplice e diretto, dai toni forti e d’impatto immediato, soprattutto avvicinare la gente a sé facendo credere di essere esattamente come lei: queste elezioni hanno sancito, una volta di più, la vittoria della “politica dell’identificazione” sull’idea antica, di origine greca, della politica appannaggio degli “àristoi”, i migliori, lontani e diversi dal popolo e per questo deputati a governarlo. Un esperimento “aristocratico” è stato in certo qual modo il governo tecnico, il governo dei professori, e Monti ha provato a replicarlo nelle elezioni, sottoponendolo al giudizio degli italiani, ma si è visto com’è andata a finire. La società civile di Scelta Civica non era quella del MoVimento e Monti come leader non aveva nulla delle capacità empatiche di Grillo e Berlusconi; quest’ultimo, dipingendo ripetutamente l’avversario come un algido professore distaccato dalla realtà, è riuscito perfino a risultare più vicino alla gente, l’“uomo qualunque”, lui che è uno degli uomini più ricchi della Terra. È una cosa che fa dai tempi della sua discesa in campo e gli riesce sempre benissimo. Con Grillo, il processo di identificazione è andato ancora più in là, dal momento che non sono più i candidati a cercare di somigliare il più possibile ai cittadini, ma sono direttamente i cittadini, la gente comune, ad essere candidati. Con tutto ciò che comporta un sensibile calo dell’esperienza e della preparazione politica. D’altronde quella di identificarsi nella classe politica è un’esigenza che ha accompagnato l’intero sviluppo della Seconda Repubblica e, a quanto pare, non verrà meno neppure nella Terza (la Prima è tutta un’altra storia: chi mai si sarebbe sognato di identificarsi negli austeri leader democristiani?). Quanto al Pd, anch’esso come Monti ha risentito duramente della svolta populistica di questa campagna elettorale. Guidato da un leader poco carismatico e mediatico, che si è vantato a lungo di non aver inserito il proprio nome nel simbolo proprio quando la personalizzazione della politica raggiungeva i livelli più alti, il Pd non ha saputo offrire al Paese ciò che esso chiedeva: alle promesse mirabolanti ha preferito un “linguaggio di verità” a tratti ostico e poco comprensibile, infarcito di parole desuete come “moralità”, “responsabilità”, “diritti” (oltre che di giaguari, lepri e tacchini); ha indicato agli italiani sogni che non sono i loro, come quello di un’“Italia giusta” e degli Stati Uniti d’Europa, mentre essi sognano per lo più uno stato meno invasivo, un fisco con la museruola e il ritorno di una nuova era di cuccagna finalmente libera dai diktat della perfida Europa. E così, mentre la testa degli italiani cercava di destreggiarsi in mezzo a tutti questi messaggi e ai lambiccati discorsi di Monti sulle riforme strutturali, è successo che qualcun altro parlasse dritto alla loro pancia e in tal modo si guadagnasse il loro voto: sono bastati la promessa di riavere indietro i soldi dell’IMU e qualche “vaffa” ben assestato. Panem et circenses, una tradizione italiana dai tempi di Nerone. E se con ciò può sembrare che si stia facendo un processo agli italiani, ben venga, dal momento che è difficile che possa farlo qualcun altro. Certo non lo fa la politica, e i motivi sono ovvi. Non lo fa neppure il Capo dello Stato che, per suo stesso mandato, deve rappresentare l’Italia nella sua interezza sempre e comunque, e quindi anche quest’Italia populista. Solo il candidato socialdemocratico alla Cancelleria tedesca, Peer Steinbrueck, può permettersi di dire che le ultime elezioni italiane le hanno vinte “due clown”. E noi con lui.
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