Il dramma che sta consumandosi al termine delle elezioni è palpabile. Di fatto, il responso delle urne impedisce la formazione di una coalizione di governo senza ricorrere a rischiose alleanze politiche. Questo “stallo alla messicana” è sicuramente dovuto al fatto che il Paese risulta essere ancora una volta spaccato sul piano delle preferenze politiche. Il 2008, l’anno d’oro del bipolarismo, Pd e centrodestra s’atteggiavano ad uniche alternative possibili e si spartivano la stragrande maggioranza dei voti, con il centro a recitare il ruolo del comprimario ininfluente. Questa volta la divisione è ben più profonda e complessa perché le parti in causa sono addirittura tre, causa la presenza di altrettante formazioni politiche che, al netto dei voti ottenuti, si può dire siano molto vicine tra loro, quando in realtà, dal punto di vista politico, non potrebbero essere più differenti. La situazione era quantomeno prevedibile. Tutti, infatti, sospettavano e temevano che si sarebbe potuto verificare ciò che poi è puntualmente accaduto: cioè l’impossibilità per la coalizione vincente di poter almeno contare su di una maggioranza parlamentare importante, se non addirittura sufficiente per governare. Solo così si capiscono le bestemmie provenienti dall’area Pd e le esultanze dell’area Pdl rivolte al cielo. Degli attuali meccanismi elettorali, infatti, ne ha giovato sopratutto il centrodestra che pur avendo subito un’emorragia di voti spaventosa, ha saputo conquistare la maggioranza dei seggi al Senato, ostacolando al contempo il Pd il quale, pur risultando il primo partito alla Camera con la contemporanea conquista del relativo premio di maggioranza che gli attribuisce il 50% dei seggi disponibili, si vede così impossibilitato a formare il governo. In realtà non è stata solo la situazione politica realizzatasi a determinare tale instabilità. La responsabilità è anche dell’attuale legge elettorale, o meglio di chi l’ha voluta e difesa. Lo spettro dell’instabilità si è dunque materializzato proprio perché accanto ad una situazione politica frammentata e mutevole, si è andati alle urne con una legge elettorale da incubo: il Porcellum. La leggenda vuole che tale nomignolo venne affibbiato alla legge numero 270 del 2005 proprio dal suo creatore, l’onorevole Calderoli, esponente della maggioranza dell’epoca, il quale subito si rese conto grazie al suo acume leghista quale oscenità avesse partorito la sua verve celtica. Ovviamente nessuno ha voluto porvi rimedio perché in realtà la “porcata elettorale” – poi ribattezzata porcellum – venne concepita per uno scopo molto semplice: ostacolare in tutti i modi la probabile vittoria, alle legislative del 2006, da parte del centrosinistra, all’epoca all’opposizione. Una strategia che è si è rivelata utilissima anche alle ultimissime elezioni e che ha dato i suoi frutti sopratutto a favore di Pdl e Lega. Una legge elettorale vergognosa dunque, nata esclusivamente per garantire la futura opposizione e a tutto discapito della governabilità del Paese. Una simile trovata non può non richiamare alla mente la più nota tattica della “terra bruciata”, consistente appunto nel dare fuoco a tutto ciò che possa rivelarsi utile all’avanzata del nemico, anche a costo di distruggere le proprie terre. L’unica differenza – di non poco conto – è che se in guerra vale il detto per cui non ci sono regole, in politica dovrebbe vigere il concetto opposto. A questo proposito, a nulla sono serviti i tentativi, avvenuti nel corso dell’anno passato, di modificare la legge elettorale. Inutili gli inviti lanciati di Napolitano, che ha tentato di indicare la retta via a Pdl e Udc mentre il Pd si dimostrava interessato a riformarla forse perché dato per vincente.
La realtà, dunque, è che si è andati comunque a votare con una legge che, dal punto di vista tecnico, fa leva sulla discussa disposizione costituzionale per cui il Senato è eletto su base regionale, a differenza della Camera che è eletta invece su base nazionale. Ciò si traduce nella sostanziale differenza per cui alla Camera vince chi ottiene semplicemente più voti, mentre al Senato risulta vincitore chi conquista le Regioni cui spettano il maggior numero di seggi. E’ facile, allora, capire perché non sono pochi coloro che contestano una simile differenza per l’elezione dei rappresentanti di Camera e Senato, dal momento che il Parlamento italiano costituisce uno dei rari casi di bicameralismo perfetto. Tale diversità è da rintracciarsi all’interno della Costituzione: i Padri Costituenti, infatti, concepirono il Senato come una camera federale, espressione cioè dei rappresentanti delle più importanti realtà locali che componevano l’Italia di allora e di oggi, cioè le venti Regioni. Una formula che ricalca esattamente quanto avviene oggi in Germania, dove il Bundesrat è appunto espressione della rappresentanza delle Regioni tedesche. Nella sua saggezza, l’Assemblea Costituente preferì non realizzare subito un’Italia sul modello federalista o regionalista, perché i tempi erano ritenuti poco maturi per una simile innovazione politica. A loro detta, l’essere passata l’Italia dalla forma monarchica a quella repubblicana costitutiva già una novità rilevante rispetto al passato. Meglio lasciare alle generazioni future il compito di rendere, gradualmente ma con costanza, l’Italia uno Stato federalista moderno. Ciò che i Padri Costituenti non poterono prevedere era che il Parlamento avrebbe riconosciuto pieni poteri alle Regioni sono nel 1971, con l’istituzione dei Consigli Regionali, mentre è addirittura del 2001 la riforma dell’articolo V della Costituzione, che sancisce piena autonomia legislativa alle Regioni rispetto allo Stato su talune materie fondamentali. Di conseguenza, ciò che mancava e manca tuttora è proprio la trasformazione del Senato in camera delle regioni così da completare il processo di trasformazione dell’Italia, iniziato all’indomani dell’Unità, da Stato centrale a regionale. Un processo iniziato realmente più di cinquant’anni fa e ancora da completarsi. D’altra parte è tipico della realtà politica italiana essere succube di queste mezze riforme, né carne né pesce, che il più delle volte costituiscono solo un danno al corretto svolgimento della democrazia. Ciò che stupisce è che proprio un leghista duro e puro come Calderoli, fautore del federalismo fiscale, non abbia, contestualmente all’emanazione della propria legge elettorale, battuto i pugni sul tavolo affinché venisse completato il processo di federalismo politico a livello costituzionale.
D’altra parte la legge elettorale costituisce pur sempre uno dei perni fondamentali della democrazia moderna insieme al referendum. Solo che a differenza di quest’ultimo, che è un meccanismo tipico di democrazia diretta, la legge elettorale è l’alfa e l’omega della democrazia rappresentativa. Al termine delle elezioni, infatti, la parola passa dagli elettori agli eletti, con questi ultimi chiamati a rappresentare la Nazione e a gestire la res publica negli anni a venire per un tempo definito. Per tali ragioni, la legge elettorale è fondamentale anche perché indicativa dell’affidabilità e della serietà dei meccanismi democratici di un Paese. E’ una delle “regole del gioco”, e il gioco è tanto più serio quando permette a tutti di parteciparvi alle stesse condizioni e, sopratutto, se permette a qualcuno di “vincere” al termine della competizione. In questo caso la vittoria è costituita non solo dall’ammucchiata di voti ottenuti da “Trieste in giù”, ma sopratutto dalla possibilità di governare. Non importa quali degli infiniti meccanismi siano stati selezionati per costituire la procedura elettorale: ciò che conta, alla fine, è che essi siano atti a garantire un’effettiva stabilità. Cosa ancora più importante, la legge elettorale va realizzata tenendo conto del complessivo assetto istituzionale e dell’intero sistema politico, come sopra ricordato. Per questa ragione l’UE ed altre organizzazioni internazionali raccomandano caldamente che il meccanismo elettorale venga approntato attraverso una partecipazione quanto più ampia è possibile, al fine di garantire a tutti i soggetti presenti sulla scena politica di tutelare i diritti e gli interessi degli elettori che difendono. Sopratutto, è utile che essa venga discussa ed approvata in tempi non sospetti, quanto più è possibile lontano dalle elezioni e senza tener conto di chi possano essere i futuri vincitori. E’ una questione di opportunità politica, dato che la legge elettorale può benissimo essere approvata a maggioranza semplice e, dunque, anche da una maggioranza politica abile e sleale che abbia il solo interesse di conservare una posizione di vantaggio rispetto all’opposizione. Una mossa truffaldina, questa, che contraddice chiaramente allo “spirito del gioco.” Ma evidentemente non a tutti piace perdere, tanto che qualcuno non si fa scrupoli a fare qualunque cosa pur di intralciare la possibile vittoria dell’avversario. Anche se ciò dovesse significare l’ingovernabilità del Paese, con tutte le conseguenze che ne derivano e che ci apprestiamo a subire.
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