Questa volta lo Spirito Santo, o, per chi preferisce, il Collegio Cardinalizio, ha stupito tutti. Ha mandato all’aria ogni previsione, ha sovvertito tutti gli scenari che noi comuni mortali, noi laici, particolarmente noi che ci dilettiamo a scrivere, avevamo disegnato, presi da quella spasmodica euforia che si chiama toto-papa. Dico “noi”, perché chi scrive è il primo ad essere stupito. Avevo passato quell’ora e poco più che è intercorsa fra la fumata bianca delle 19.06 e la comparsa del cardinale protodiacono Tauran sulla loggia delle benedizioni, a tratteggiare nella mia mente un possibile articolo su Papa Angelo Scola, a chiedermi quale nome avrebbe scelto, cosa avrebbe significato, dopo trentacinque anni, un nuovo pontefice italiano. E invece no, tutto da rifare, chi era entrato in conclave già Papa ne è uscito cardinale e dalla loggia, pochi minuti dopo le 20.00, è stato proclamato un nome che non figurava neppure fra i papabili, quel “Georgius Marius” Bergoglio, ingannevolmente italianeggiante, che corrisponde all’arcivescovo di Buenos Aires, il primo Papa sudamericano, il primo Papa non europeo da diciannove secoli. Il primo a scegliere per sé un nome fondamentale e pieno di significato nella storia del popolo cristiano, ma rimasto finora inedito nella storia del papato: Francesco. Eccolo lì materializzarsi dietro la croce e i cerimonieri, la faccia da Papa ce l’ha, da lontano somiglia anche un po’ a Paolo VI. Appare timido Papa Francesco mentre saluta il suo gregge con la mano, più timido perfino di Ratzinger che otto anni fa da quella stessa loggia allargò le braccia più volte, a stringere a sé in un abbraccio la piazza e il mondo intero. Un po’ impacciato, quasi impietrito davanti alla folla festante, rompe il ghiaccio con un informale “Buonasera!” dalla “s” musicalmente argentina e un’autopresentazione un po’ wojtyliana: “Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo”; il pensiero va subito a quel “Lo hanno chiamato da un paese lontano” con cui il pontefice polacco conquistò l’affetto della piazza romana, un po’ sorpresa per l’elezione del primo Papa non italiano dopo quattro secoli. Ma Bergoglio non è né Ratzinger né Wojtyla. L’ungherese Erdo, il canadese Ouellet, l’austriaco Schönborn e anche l’italiano Scola sarebbero stati la successione più coerente a Benedetto XVI; il dinamico Timothy Dolan, cardinale di New York, avrebbe vestito degnamente i panni di un nuovo Giovanni Paolo II versione yankee. La scelta di Jorge Mario Bergoglio ci riporta invece più indietro, a quel primo conclave del 1978 in cui fu eletto Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani: anche allora le prime cose che saltarono all’occhio furono l’estrema semplicità e umiltà del nuovo Papa, che tra l’altro fu il primo a rivolgersi liberamente al popolo prima della benedizione Urbi et Orbi, inaugurando una consuetudine che poi è stata rispettata da tutti i suoi successori. Come Luciani, anche Bergoglio non ha mai fatto mistero di essere poco interessato, se non addirittura spaventato, all’idea di prendere su di sé il ministero petrino. Nel 2005 fu il candidato più votato dopo Ratzinger, scelto dalla fazione “progressista” che si coagulava intorno al cardinale Carlo Maria Martini per contrastare il gruppo “conservatore”, unito a sostegno del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Secondo i retroscena, dopo le prime votazioni Bergoglio chiese ai suoi di convogliare i voti su Ratzinger e al quarto scrutinio fu raggiunto l’accordo: fumata bianca. Otto anni dopo c’è voluta appena una votazione in più per raggiungere, al secondo giorno di conclave, la maggioranza di due terzi in favore del porporato argentino. Un conclave abbastanza breve, molto più breve di quanto ci si aspettava da un Sacro Collegio attraversato da profonde tensioni, colpito dallo scandalo Vatileaks e lacerato dalle lotte di potere all’interno della Curia. La contrapposizione, questa volta, non era tanto fra conservatori e progressisti, bensì fra “curiali” e “riformatori”, i difensori del potere romano da una parte e coloro che contestano gli eccessi di quel potere dall’altra. Ne è risultata, si può immaginare, una situazione di stallo, in cui né il candidato dei riformatori, Scola, né quello dei curiali, il brasiliano Odilo Scherer, sono riusciti a prevalere. Ecco allora spuntare di nuovo fuori il nome di Bergoglio, un Papa che viene dagli antipodi, lontano mille miglia da Roma e dai suoi giochi di potere, “pulito” per i riformatori e forse ritenuto “gestibile” dai curiali, che non a caso avevano scelto come loro portabandiera un sudamericano (non bisogna dimenticare che solitamente a un Papa straniero si affianca un Segretario di Stato italiano e viceversa). Ma qui a parlare è l’“avvocato del diavolo”, quello che vede complotti dietro ogni angolo dei Sacri Palazzi (e qualche volta ci azzecca pure), e starà a lui, a Papa Francesco, dimostrare di essere l’uomo giusto nel posto giusto, non solo un’anima candida ma anche un uomo di governo, capace di “rottamare” e fare pulizia sul “volto deturpato della Chiesa”, proseguendo sulla strada già tracciata da Ratzinger, costretto poi ad abbandonarla per mancanza di forze. E qui sta l’altra stranezza di questa elezione. Dopo la decisione storica di Benedetto XVI, primo Papa dell’età moderna ad abdicare, ci si aspettava un pontefice giovane, con un lungo periodo di governo davanti a sé, lontano dai rischi della malattia e dell’indebolimento fisico.
I cardinali invece hanno optato per un uomo di settantasei anni, appena due meno di Ratzinger al momento dell’elezione, il segno, forse, che la rivoluzione operata dal Papa dimissionario è già stata assimilata e compresa, tanto che se in futuro un pontefice giungesse alla consapevolezza di non essere più in grado di portare avanti il suo ministero e decidesse di rinunciarvi, nessuno lo accuserà di voler “scendere dalla Croce”. Un altro papato “di transizione” sembra dunque suggerire l’età, ma vale la pena di non prendere troppo sul serio questa categoria: se Ratzinger con l’atto delle dimissioni ha apportato il cambiamento più significativo nella concezione del ruolo del pontefice dai tempi di Pio IX che ne stabilì l’infallibilità, fu un altro Papa anziano, Giovanni XXIII, a promuovere la più straordinaria rivoluzione dei linguaggi e dei contenuti nella storia della Chiesa moderna, il Concilio Vaticano II. Le sorprese potrebbero non mancare anche stavolta, e sono tanti gli elementi interessanti della biografia di Papa Bergoglio che già le fanno presagire. Tanto per cominciare, la sua elezione sposta l’asse geopolitico della Chiesa Cattolica dalla vecchia Europa secolarizzata al Nuovo Mondo, alle Americhe, dove il fatto religioso continua a rivestire un importante ruolo pubblico. È forse troppo presto per un Papa statunitense (personalmente confesso che avevo puntato sul cappuccino O’Malley di Boston, per il quale vedevo bene proprio il nome Francesco), ma non lo è per un Papa latinoamericano, esponente di una Chiesa giovane e in crescita, vicina ai poveri e a una certa concezione della solidarietà di cui il mondo colpito dalla crisi capitalistica ha disperato bisogno. Le origini piemontesi della sua famiglia (ecco spiegato lo strano cognome) danno poi qualche soddisfazione anche a chi auspicava il ritorno di un italiano sul soglio di Pietro. Non è da sottovalutare il fatto che Bergoglio sia un gesuita, membro di una famiglia religiosa che ha dato tanto alla Chiesa in termini di cultura, ingegno e apertura alla modernità, ma che finora non le aveva dato nessun Papa; la sua elezione suona quasi come un riconoscimento postumo a Carlo Maria Martini, gesuita anche lui, che prese diversi voti nel primo scrutinio del 2005, ma si fece poi da parte perché malato di Parkinson, offrendo il suo appoggio convinto al confratello argentino. Eppure il primo Papa gesuita è anche il primo a scegliere di chiamarsi Francesco, e qui c’è forse l’indizio più importante per capire che pontificato sarà quello appena iniziato: se cultura, ragione, intellectus fidei sono stati i tratti distintivi del magistero di Benedetto XVI e certamente lo sarebbero stati anche per il biblista Martini, il ministero di Francesco comincia nel segno della semplicità evangelica. Essa, come dimostra la storia del Poverello di Assisi, è il rimedio migliore per sanare le ferite di una Chiesa mondanizzata e corrotta, quale era quella del XIII secolo e quale è quella che viene fuori dagli scandali del nostro tempo. Ristabilire la credibilità della Chiesa agli occhi del mondo: anche a questo avranno pensato i porporati, particolarmente quelli del partito “anti-romano”, nel momento in cui hanno scelto di “eligere in summum pontificem” Jorge Mario Bergoglio. Il cardinale che abitava in un umile appartamento, che si cucinava da solo e si spostava in metropolitana è lo stesso che ieri si è presentato alla folla vestito di bianco, senza stola e mozzetta, con al collo una semplice croce di ferro; ha chiesto al mondo di pregare per lui non prima di aver pregato per il Papa emerito Benedetto, ha impartito la benedizione solo dopo averla chiesta per sé chinando il capo in un gesto unico di assoluta umiltà; ha parlato di sé sempre come del vescovo di Roma e mai come del Sommo Pontefice. Confesso che quest’ultima cosa all’inizio mi aveva spiazzato un po’: ma come, non l’ha capito che lui è il Papa? Perché si ostina con questa storia del “vescovo di Roma”? Ma forse con Francesco sarà meglio non farsi troppe domande, badare meno ai perché e molto più ai cosa e ai come, ai gesti più che alle parole. Neanche il tempo di pensarci, che il Papa saluta e si congeda: “Buona notte e buon riposo!”
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