“Hai tu, o io, il diritto alla vita soltanto finché noi siamo produttivi, finché siamo ritenuti utili da altri? Se si ammette il principio, ora applicato, che l’uomo improduttivo o diverso possa essere ucciso, allora guai a tutti noi quando saremo vecchi e decrepiti. Se si possono uccidere esseri improduttivi perché considerati diversi e inutili, allora guai agli invalidi che nel processo produttivo hanno impegnato le loro forze, le loro ossa sane, le hanno sacrificate e perdute. Guai ai nostri soldati che tornano in patria gravemente mutilati, invalidi. Nessuno è più sicuro della propria vita”. Con queste parole, pronunciate nel 1941, l’allora vescovo di Monaco Clemens August von Galen denunciò pubblicamente, come mai nessuno aveva fatto fino ad allora, il programma di eutanasia noto come Aktion T4, costringendo così il regime nazista a sospenderlo ufficialmente. Nel suo pensiero Von Galen sosteneva come fosse inammissibile giudicare la validità della vita umana solo sulla base della sua efficienza fisica, della sua capacità produttiva e di procreazione, minando dunque alle fondamenta l’ideologia nazista, fondata, invece, sulla mera distinzione arbitraria tra uomini “costituzionalmente perfetti” ed atti a servire lo Stato ed altri, invece, “inferiori” ed indegni della vita. Il programma sanitario noto come Aktion T4 prevedeva, infatti, eutanasie e sterilizzazioni di massa nei confronti di chiunque fosse affetto da ogni sorta di menomazione o diversità invalidante o presunta tale. Destinatari di un simile famigerato trattamento furono sopratutto infermi, omosessuali e malati di mente, considerati dalla legge nazista alla strega di veri e propri abomini di natura inadatti a servire lo Stato e a rappresentare la razza germanica. L’Aktion T4 rappresenta forse, insieme allo schiavismo, la più oscura mortificazione nella storia del rispetto dei diritti dell’individuo, poiché ne calpesta innanzitutto il diritto alla vita e alla libertà e alla salute.
Settantadue anni dopo le parole di Von Galen, molte cose sono cambiate per ciò che concerne il riconoscimento dei diritti individuali ed universali, eppure ancora persiste in una certa misura un pregiudizio strisciante e meschino nei confronti di quelli che, ieri come oggi, sono percepiti diversi. Ed è proprio su tali presunte diversità che alcuni insistono nel costruire disparità di riconoscimento dei diritti universali. La Dichiarazione universale dei diritti umani e la Costituzione italiana riconoscono, rispettivamente agli art. 16 e 29, il matrimonio come la pietra fondante della famiglia, considerata a sua volta la società naturale nella quale viene a svilupparsi e a compiersi ogni uomo, specificando come non vi possa essere limitazione alcuna di razza, sesso, religione o altro ostacolo al diritto di sposarsi e fondare una famiglia. Eppure, nonostante simili premesse, ancora oggi in Italia questi diritti vengono sistematicamente negati alle coppie omosessuali. A differenza del matrimonio canonico di rito religioso, di cui uno dei presupposti essenziali è proprio l’eterosessualità della coppia e la capacità dei singoli coniugi di partecipare alla procreazione, – tanto che la sterilità o l’infertilità non preventivamente dichiarate sono causa legittima di annullamento del sacramento matrimoniale da parte del tribunale ecclesiastico – per il matrimonio con rito civile la Costituzione e la legge nulla dicono circa lo stato di salute dei coniugi, lasciando che sia unicamente il codice civile a richiedere quale requisito essenziale la diversità di sesso. Per questa ragione sembra inconcepibile sentir parlare di impossibilità di estensione del matrimonio civile alle coppie omosessuali sulla base del principio dell’incapacità a procreare. Sulla base di tale ragionamento, infatti, dovrebbero vietarsi allora anche i matrimoni tra coppie eterosessuali dove uno dei due coniugi sia affetto da sterilità o infertilità, in quanto impossibilitato a generare un figlio. Ricondurre il matrimonio ad un affare di coppie di sesso diverso mortifica fortemente il valore stesso dell’istituto, basato, oltre che sul sesso, anche sull’affettività e sull’amore e sul desiderio di fondare una famiglia. Impedire alle coppie omosessuali l’accesso a tale diritto è assolutamente anacronistico. Significa vietare loro il diritto ad avere un riconoscimento dinanzi allo Stato e alla collettività dei loro sentimenti di unione. A ciò si aggiunga che, sempre in Italia, manca attualmente una legge finalizzata al contrasto dell’omofobia, da intendersi come discriminazione o sequela di atti e minacce sulla base della discriminazione sessuale. In questo senso sono da registrarsi come passi in avanti le dichiarazioni di taluni ecclesiatici e politici vicini a posizioni cattoliche in merito all’apertura sul riconoscimento di forme di diritti alle coppie omosessuali. D’altro canto, proprio recentemente si è assistito in materia ad eventi di natura contrapposta: da un lato l’estensione del matrimonio civile ai gay in Francia e Inghilterra e, invece, l’inasprimento dell’omofobia in Russia, dove la Duma ha approvato una legge che vieta persino di discutere dell’omosessualità e di porre in essere comportamenti “equivoci” in luoghi pubblici. E’ difficile credere che in un futuro prossimo possano ripetersi casi di violazione dei diritti come il famigerato Aktion T4, eppure nonostante l’OMS abbia depennato l’omosessualità dalle patologie psichiche nel 1987, classificandola come “deviazione naturale della sessualità umana” nel 1990 e non considerandola dunque più come patologia, ancora in diversi Paesi essa è considerata un reato punibile con la pena morte. Ridurre la sessualità ad una mera pratica fisica, azzerandone gli aspetti affettivi e sentimentali, è quanto di più di orribile possa ancora vedersi. E’ questa la battaglia per i diritti di questo inizio secolo. Ed è una battaglia da vincersi quanto prima e ovunque, affinché amarsi non costituisca più un reato o una causa di morte e mortificazione.
Home » Editoriali ed elzeviri, News, Politica » Dall’eutanasia nazista ai diritti civili negati: il calvario infinito degli omosessuali