TRAMA: Sbandato e derelitto, Luke Glanton (Ryan Gosling) si guadagna da vivere in pericolosissime gare di motocross nella ruota della morte dei luna park, finché non ritrova dopo un anno la sua fiamma Romina (Eva Mendes), che nel frattempo ha partorito suo figlio. Deciso a cambiar vita e a sacrificarla per il suo erede, Luke presta la sua freddezza e la sua abilità di motociclista per rapinare le banche con un complice, Robin (Ben Mendelsohn), finché, dopo un colpo andato male, non viene ucciso dal giovane poliziotto idealista Avery Cross (Bradley Cooper), che costruisce la sua ambiziosa carriera su questo atto di eroismo e su una denuncia ai colleghi sporchi. Quindici anni dopo, l’incontro tra il figlio dell’ucciso, Jason (Dan De Haan), e dell’uccisore, AJ (Emory Cohen), che nulla sanno dei loro padri, riapre il sipario su un teatro di dolore.
GIUDIZIO: Una tragedia americana, moderna, costruita in tre atti, scanditi ognuno da un protagonista e da una variazione sul tema della giustizia, con l’inevitabile risoluzione finale, catartica e pietosa, e attraversata nel mezzo dal personaggio a tutto tondo, anti-manicheo, del poliziotto (poi procuratore) Avery Cross, specchio di un’umanità ferocemente ambiziosa, ma ancora figlia di un mondo di valori che si è perso, e lo ha perso. In questo mondo senza padri, in cui si dipanano gli avvincenti 140 minuti di film, come in Shakespeare le colpe dei padri ricadono inevitabilmente sui figli, e il confronto tra generazioni e giustizie trasversali lascia più di un dubbio se ci possa essere o meno un’educazione perfetta: figli di nessuno, della vecchia guardia democratica (il padre di Avery) o di padri adottivi-sostitutivi (il padre nero di Jason), di morti diffamati o di eroi esaltati, la verità sta nel mezzo e si perde. La costruzione narrativa, tripartita come a teatro, lascia da parte un protagonista dopo circa quaranta minuti, come il macguffin hitchcockiano di “Psyco”, e si concentra sulle conseguenze di un semplice gesto che, come nella vita, sono letali, vitali per sempre: l’ingresso scenico del poliziotto (quasi) perfetto spiega l’intreccio, e apre al terzo film nel film, quello più convincente ed emozionante, dove le scelte del passato si fanno il presente autodistruttivo, volgare, tragico, vendicativo di due ragazzi opposti, divisi socialmente, uniti dalla droga, in collutta per un passato che non gli appartiene ma da cui dipendono. In questo gioco narrativo che rifugge abilmente dall’effetto macchinoso del flashback (solo una fotografia di famiglia ritorna come memento e momento della vita), la tragedia scivola via con un ritmo che dosa il furore e scolpisce con la limetta personaggi psicologicamente sorprendenti. Nell’arancia meccanica che è la società americana di oggi, quella vera brutta sporca e cattiva che il cinema indie sa e deve raccontare, la violenza compiuta e archiviata torna come un boomerang, la morte non redime nessuno, così che chi compie la violenza e chi la subisce sono sempre i soliti noti, vincenti e perdenti dello stesso microcosmo, destinati per genetica alla gloria o al patibolo. Non stupisce che in quest’epoca senza valori morali o di giustizia, di estasi ed ecstasy, l’ambizione sia l’unico movente per vivere, figli di papà e figli di fuorilegge che si scontrano sotto il nome di un solo atto passato, glorioso per l’eroe della domenica (come in “L’uomo che uccise Liberty Valance”), ignominioso per il delinquente della domenica: l’atto di violenza fa e disfa famiglie e individui, ma il mondo è un campionato truccato, e vincono sempre gli stessi, i signori del potere e del denaro. O quasi, perché il formidabile autore Derek Cianfrance, mescola bene le carte e niente è mai quello che sembra, ma allo spettatore è chiesta partecipazione, compassione, beneficio del dubbio. L’emozione non è assicurata solo da una sceneggiatura profonda e da una regia nevrotica, che sa essere magistrale nelle scene d’azione come in quelle intimiste (il piano-sequenza iniziale di Luke che marcia verso la ruota della morte, come le riprese a mano che pedinano i personaggi e i dolly dall’alto delle strade), ma anche da attori strepitosi e commoventi: gelido, serio, alienato, Ryan Gosling è sicuramente il miglior attore di questa decade, ma la grande sorpresa è Bradley Cooper, che, ottimo se non migliore nel registro drammatico, ricorda la sua educazione all’Actor’s Studio. Il film di Cianfrance, disgraziatamente poco prolifico (è il suo terzo film, dall’esordio nel ’98), è una gemma rara nell’arte del racconto, felicemente commentata da una musica puntualissima ed eclettica (Mike Patton, Ennio Morricone, Arvo Part, Bruce Springsteen, tra i tanti) e unica nel descrivere, smuovere, criticare la corrotta società di oggi, americana e non solo, con un tocco aggraziato, tenero, crudele, pietoso, freddo, tutto insieme. Straordinario.
VOTO: 5/5
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