Per tutta la vita, dagli anni di combattimento nella trincea di Downing Street a quelli del ritiro e del decadimento psicofisico, Margaret Thatcher è stato un personaggio estremamente divisivo per l’opinione pubblica britannica e non solo. C’era da aspettarsi, quindi, che la sua morte, avvenuta l’8 aprile all’età di 87 anni, avrebbe riaperto antiche ferite e risvegliato conflitti ideologici mai sopiti, che neppure nei giorni successivi al suo funerale accennano a placarsi: da una parte gli apologeti del neoliberismo, che piangono la scomparsa della loro eroina, ultima sopravvissuta di quel dream team conservatore che nel 2004 perse l’altra sua colonna portante, l’ex presidente USA Ronald Reagan; dall’altra la sinistra, i residui del sindacato fieramente combattuto e sconfitto dalla Lady di ferro, e soprattutto i minatori, che hanno addirittura festeggiato la dipartita della storica arcinemica al grido di “The bitch is dead!”. Per i primi Margaret Thatcher vive e continuerà a vivere nella forza delle sue idee, nel sogno di una società libera fatta di individui liberi, di un’economia di mercato emancipata dalla tutela statale e di una sovranità nazionale pienamente realizzata. Per i secondi la dipartita dell’ex Primo Ministro non fa che mettere una pietra (tombale) sopra quelle stesse idee, già morte da un pezzo perché rivelatesi sbagliate nel confronto con la realtà economica e sociale, come dimostra anche la presente crisi mondiale, frutto degli eccessi di un mercato privo di controllo e di una finanza irresponsabile, oltre che degli effetti recessivi di terapie a base di sola austerità.
Ma se è impossibile, o quantomeno molto difficile, accostarsi a una figura così controversa senza nessuno spirito di partigianeria, è altrettanto difficile liquidare sbrigativamente l’intera storia politica e umana della signora Thatcher in un senso o nell’altro. Meglio provare, allora, con il vecchio giochetto di Benedetto Croce, che analizzò la filosofia di Hegel chiedendosi cosa “è vivo” e cosa “è morto” nel sistema del grande pensatore tedesco, cosa regge ancora all’avanzare dei tempi e cosa invece no. Chiedersi cosa è vivo e cosa è morto nella vicenda umana e politica di Margaret Thatcher significa allora disegnare una breve “fenomenologia dello spirito” thatcheriano, distinguere ciò che dell’eredità storica della Lady di ferro va tenuto da ciò che va buttato. È un esercizio arbitrario, e come tale assolutamente contestabile, ma tuttavia vale la pena di provarci nel modo che segue.
È viva la testimonianza di incredibile determinazione e forza di volontà che portò la figlia di un droghiere di provincia a scalare tutti i gradini della piramide sociale – membro della Camera dei Comuni a 34 anni, ministro dell’istruzione a 45, Primo Ministro a 54 anni – e a battere tutti i record mai raggiunti nella storia politica del proprio Paese – prima e fino ad oggi unica donna capo del governo, in servizio per undici anni ed un di totale tre mandati, più di ogni altro inquilino di Downing Street prima e dopo di lei: una bella storia di ascesa individuale, realizzata contando solo sulle proprie forze e sul valore del merito e non, come troppo spesso accade in paesi meno “protestanti” come il nostro, sull’appartenenza a consorterie varie o su titoli da portaborse. È morta, invece, la pretesa, insita nella visione antisociale della Thatcher, che a simili traguardi ci debbano arrivare tutti, che tutti debbano avere la forza e le capacità di arrivarci da soli, e che chi non ce la fa allora è il caso che s’arrangi. Gli uomini, lei stessa ne era fermamente convinta, non sono tutti uguali, non hanno la stessa storia alle spalle, né si pongono gli stessi obiettivi; di coloro che rimangono indietro, allora, cosa farne? Dalla Thatcher nessuna risposta.
È vivo il progetto, strenuamente sostenuto dall’ex Primo Ministro e in buona parte realizzato, di un’economia moderna e dinamica, non ingessata dai diktat di un sindacato conservatore (in un senso diverso dal conservatorismo dei Tories, ovviamente) com’erano le Trade Unions inglesi alla fine degli anni ’70, da lei fortemente ridimensionate nel loro potere d’interdizione. È morta, d’altra parte, la fede assoluta e dogmatica nei miracoli del mercato lasciato a se stesso, privo di qualsiasi controllo pubblico, se è vero che, come da noi ha ben ricordato Romano Prodi, la presente crisi economico-finanziaria affonda le proprie radici nel fanatismo antistatalista di certe politiche targate Thatcher e Reagan e in quella rivoluzione neoliberista che dal Regno Unito e dagli USA si è propagata in buona parte dell’Occidente industrializzato.
È vivo l’impegno della Thatcher per la difesa dei valori della democrazia liberale, che lei contrapponeva con orgoglio all’oppressivo sistema sovietico, colpevole di schiacciare i diritti dell’individuo e di assoggettarlo in tutto e per tutto allo stato; è ben noto il contributo dato dalla Thatcher, insieme a Reagan e a Giovanni Paolo II, per accelerare la disgregazione dell’URSS, poi concretizzatasi, alla vigilia del suo ritiro, nel crollo del Muro e nella fine della Guerra Fredda. È morta, invece, la retorica anticomunista con cui la Thatcher aggrediva i suoi avversari politici, i Laburisti, accusati di essere portatori di idee “socialiste”, a tal punto animati da odio sociale da preferir vedere i poveri “più poveri” pur di rendere “i ricchi meno ricchi”. Una tecnica, questa, di demonizzazione dell’avversario, che alzò drammaticamente il livello dello scontro e divenne un topos della retorica di destra in molti paesi, fra i quali, ahinoi, anche il nostro.
È vivo il sincero sentimento patriottico che non smise mai di animare Margaret Thatcher e che ella seppe trasmettere all’intera nazione, portandola fuori dalle secche dell’incertezza e della sfiducia in cui l’aveva relegata la condizione cronica di “malata d’Europa”. È morta la concezione distorta di quello stesso sentimento che ispirò alcune delle sue scelte più controverse, come quella di imbarcarsi in una sanguinosa guerra contro l’Argentina per recuperare i quattro scogli delle isole Falkland, o quella di chiudere le porte della Gran Bretagna al processo di unificazione europea, una scelta che continua a pesare ancora oggi, e che di fatto fu fra le principali cause della caduta finale della Thatcher.
È vivo, ancora, l’esempio luminoso di un successo femminile e non femminista, frutto di capacità evidenti e non di rivendicazioni di genere, un successo ottenuto in una società e in un partito fortemente maschilisti, in cui le “quote rosa” non esistevano per niente. È morta quella concezione “maschile” della leadership che fece della Thatcher la Lady di ferro, un capo dispotico e accentratore, incapace di dialogare perfino coi componenti del suo gabinetto, mentre proprio il suo essere donna avrebbe potuto suggerirle ben altro stile nella gestione del potere, quella “dolce fermezza” che è dote naturale del gentil sesso.
È viva, in ultima analisi, Margaret Thatcher, il ricordo della sua personalità straordinaria, la forza del suo carisma, la sua testimonianza di coerenza e passione politica. È morto, oggi più che mai, il thatcherismo.
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