Il 25 aprile è senza dubbio uno dei giorni più importanti della storia italiana. È il giorno in cui si festeggia la Liberazione dall’esercito nazista che occupò l’Italia nella Seconda guerra mondiale e la caduta del regine fascista, che per un ventennio mandò in rovina la nazione. Si celebra meglio che in qualsiasi altro giorno la continuità tra l’orrore e la speranza, la distruzione e la forza della rinascita. E Margherita Guidacci, poetessa toscana del secolo scorso, attraverso le sue poesie d’amore ha mostrato la contemporaneità di questi sentimenti che non hanno segnato solo un giorno, ma lunghi decenni dell’Italia del secondo dopoguerra.
Margherita Guidacci, nasce a Firenze il 25 aprile 1921. Trascorre la sua infanzia nella campagna Toscana, a contatto con poeti come Carlo Betocchi, Piero Bargellini e Nicola Lisi, cugino della poetessa. Si laurea a Firenze con una tesi su Giuseppe Ungaretti, poi si trasferisce in Inghilterra dove si specializza in letteratura inglese e americana. Nonostante ritorni dopo pochi anni in Italia, la conoscenza della lingua inglese le permette di iniziare a dedicarsi allo studio di importanti figure della letteratura inglese, come Eliot, Newman, Hopkins e molti altri. Da questa cultura, i suoi versi ereditano il significato del simbolismo escatologico e la religiosità vista come un’occasione di rinascita. Per quest’ultimo motivo le sue poesie esprimono una continua e naturale continuità tra la vita e la morte. Parallelamente a questo studio ed esegesi di importanti testi poetici inglesi, Margherita Guidacci inizia dal 1945 l’insegnamento della Letteratura Inglese ed Americana nei licei pubblici, per poi passare all’Università di Macerata e successivamente all’Università Maria Assunta in Vaticano. L’anno seguente, con “La sabbia e l’angelo” e con “Morte del ricco” (1954), la poetessa compone dei piccoli poemi, simili a dei racconti interiori dove si alternano immagini della vita a fantasie sulla morte, avendo come filo conduttore il caso, il suo potere e le sue misteriose ragioni. Ne risulta un’alternanza di emozioni di non facile comprensione, nonostante la scelta di un linguaggio non estremamente complesso. Più tardi, dalla fine degl’anni ’50, con le raccolte poetiche di “Giorno dei Santi” (1957) e “Paglia e polvere” (1961), la poetessa fiorentina si prepara ad un importante passaggio al sentimento di cristianità, intesa come luce alla fine di dolori da tempo impigliati tra loro e che non le hanno permesso altro che soffrire. Da ogni verso nelle opere sucessive di “Neurosuite” (1970), “Il vuoto e le forme” (1977) e “L’altare di Isenheim” (1981), si può comprendere che nessuna vittoria, gioia, si ottiene mantenendo gl’occhi chiusi sulle cause del dolore. La Guidacci, in queste e nelle ultime raccolte poetiche della sua vita, cerca di rendere noto proprio questo: ci si deve far attraversare dal dolore e dal delirio per giungere a sentire la gioia d’esistere. In “Anello del tempo”, opera pubblicata postuma alla sua morte e considerata il testamento poetico della poetessa, Margherita Guidacci ci insegna, attraverso un poetare semplice e penetrante che l’inesprimibile e l’incomprensibile sono parte essenziale della distanza tra il lettore e il poeta. Tuttavia, quest’ultimi sono uniti dalla ricerca della libertà spirituale, intellettuale e dal comune succedersi di cose straordinarie come la nascita e la morte di una persona.
Vincitrice del Premio Dessì e del Premio Scanno, Margherita Guidacci muore a Roma il 19 giugno 1992.
All’ Ipotetico Lettore
Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa’ che siano
allora come foglie e come vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l’affetto nell’addio
non è minore che nell’incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.
(M. Guidacci)