di Attilio Greco
Scrivere di Giulio Andreotti non è semplice. Soprattutto se lo si deve fare in occasione di un evento – la sua dipartita – che i più consideravano fenomenologicamente improbabile. Lasciando da parte la satire, è difficile soprattutto se si tiene conto della portata storica del personaggio, la cui complessità non ha forse eguali non solo in Italia ma anche nel resto del mondo occidentale. In oltre sessant’anni di vita politica è stato l’indiscusso protagonista della Prima Repubblica, durante la quale ha collezionato un palmarès di cariche politiche incredibile: sette volte Presidente del Consiglio e ventidue volte ministro, ininterrottamente in Parlamento prima come parlamentare dal 1948 al 1991 e poi come senatore a vita. E’ stato membro dell’Assemblea Costituente e tra i fondatori del più potente partito italiano della storia repubblicana, la Democrazia Cristiana. Suo è stato l’ultimo governo della Prima Repubblica, prima che essa venisse abbattuta dallo scandalo di Tangentopoli. Esponente di primo piano della politica ufficiale, su Andreotti è stato detto tutto e il contrario di tutto: attorno al suo nome si sono sprecati soprannomi e film, inchieste giornalistiche e indagini giudiziarie. Ma non è stata la sfolgorante carriera politica ciò che più di tutto ha contribuito ad esaltare il mito andreottiano, bensì il fatto che l’ex esponente della Dc sia stato chiamato in causa, nel corso dei decenni, in tutti i grandi misteri della vita politica e sociale italiana. Dalla discussa morte del bandito Giuliano allo scandalo Tangentopoli, passando per l’affare Gladio e le morti in odor di mafia di Salvo Lima, Mino Pecorella, Carlo Alberto Dalla Chiesa e Roberto Calvi, non c’è accusa che non gli sia stata rivolta. Il suo nome è stato addirittura più volte tirato in ballo a proposito del sequestro Moro, soprattutto dopo che, nei suoi ultimi scritti prima della morte, l’ex statista democristiano profetizzava per Andreotti non già un ruolo da protagonista della Storia quanto piuttosto della triste cronaca nera. A tal proposito, per un rapido e spietato compendio delle varie accuse di cui fu oggetto, è utile vedere il film di Paolo Sorrentino “Il Divo”: in una delle sequenze salienti, infatti, viene ricostruita un’intervista di Eugenio Scalfari ad Andreotti, in occasione dell’ultimo governo da lui presieduto.
Su di lui è caduta pesante come una scure la sentenza della Corte d’Appello di Palermo, che nel 2003 riconobbe come fondate le accuse di associazione mafiosa rivolte contro di lui dalla procura di Palermo. In particolare la Corte stabilì come fosse ampiamente dimostrata e comprovata la tesi secondo cui avrebbe non solo favorito l’organizzazione criminale, ma ne avrebbe fatto parte almeno fino al 1980. Da quella data in poi i giudici hanno ritenuto insufficienti le prove addotte dalla procura palermitana, ritenendo non dimostrato, dunque, il prosieguo del sodalizio criminale tra Andreotti e Cosa Nostra negli ultimi turbolenti anni di vita della Prima Repubblica. E’ difficile credere che all’improvviso, un bel giorno, cessino certi connubi. Ma si sa, ricostruire la verità storica non spetta ai magistrati.
Sottolineate in breve le complessità e le numerose sfumature del personaggio, non resta altro da fare che tracciarne un breve profilo. Compito immane, specie se nel tentativo si cimentarono giganti del giornalismo italiano come la Fallaci e Montanelli, senza peraltro gettare particolare luce sul personaggio. Tra le tante cose che si possono dire due sono gli aspetti centrali del mito andreottiano, almeno a detta di chi scrive. Da un lato il cuore del suo potere, ovverosia il suo sterminato archivio. Attualmente custodito presso l’Istituto Don Sturzo, esso è costituito da un partrimonio di dossiers, informazioni e dati d’incredibile vastità e ricchezza, specie se si considera l’epoca priva di Internet in cui esso è stato realizzato. A detta dei bene informati più di tutto era questo ad incutere timore, cioè il fatto che Andreotti sapesse, potenzialmente, tutto di tutti: dalle debolezze ai lati oscuri delle carriere politiche dei suoi avversari. Ancora segretato ed inaccessibile, finalmente ora sarà forse possibile accedervi e rintracciare in esso elementi utili agli storici per sviscerare ancor più a fondo alcuni momenti salienti dell’ultimo cinquantennio di storia italiana. In secondo luogo, e ancor più importante, è da annoverarsi la sua personalità politica. Andreotti è stato un politico anomalo nel panorama storico italiano. L’Italia ha sempre conosciuto due fondamentali categorie di uomini politici. Da un lato gli statisti, i cultori della sottile ars politica, destinati per lo più all’anonimato. A tal proposito basti pensare al loro indiscusso campione, Machiavelli. Uomo di stato ma non di potere. Dall’altra parte, invece, uomini dalla personalità istrionica, capaci di arringare le folle ed infiammare l’animo nazionale, icone dell’uomo forte. Non statisti ma uomini di solo potere. E purtroppo di simili individui l’Italia ne ha fatto incetta nell’ultimo secolo, da Mussolini a Berlusconi. Ma Andreotti è stato diverso perché ha rappresentato davvero un’anomalia italiana. Statista ed uomo di comando: una rarità nella storia recente d’Italia, visto che l’unico altro politico paragonabile all’ex democristiano fu Giolitti. Ed i due, in effetti, sono un po’ i dioscuri della politica italiana del Novecento. Come l’uomo di Mondovì, infatti, anche Andreotti non ha mai detenuto il potere ma si è limitato ad amministrarlo. La sua personalità non l’ha mai portato a cercare fama ed onori, bensì ad essere sempre al posto giusto e al momento giusto. Più che uomo delle istituzioni egli è stato davvero un uomo della Provvidenza, nel senso che la sua presenza, in quel momento, sembrava essere ineluttabile: era il potere ad andare da lui, nella forma delle circostanze e della fortuna, non lui a ricercarlo. E la sorte, in questo caso, non premiava l’audace ma il lungimirante, il tessitore di trame. Giustamente considerato lo statista per eccellenza, il sostenitore all’italiana – forse anche troppo – della realpolitik di Kissinger. Esattamente come l’ex Segretario di stato americano, Andreotti fu più di ogni altra cosa l’ago della bilancia della vita politica: una volta semplice indicatore, un’altra elemento in grado di spostare gli equilibri a favore dell’una o dell’altra parte. Non importa se sui piatti della bilancia vi fossero una volta la verità storica e dall’altra la menzogna politica, oppure la salvezza di Moro e l’interesse nazionale, o ancora la stabilità politica e la fortuna della Dc e delle sue correnti: l’ultima parola era la sua. E’ stato l’alfa e l’omega della Prima Repubblica con i suoi inquietanti lati oscuri perché il suo potere e la sua fortuna furono dovuti non già al voler essere attore dei più importanti eventi storici, quanto piuttosto arbitro di quest’ultimi. Perché nell’ambito di ogni contesa possono esservi numerosi contendenti ma un solo arbitro. Estraneo al gioco ma al contempo presente, discreto ma tangibile. Non già divo, dunque, ma iudex e arbiter rei publicae.