di Brando Improta
C’era una volta una schiera di registi fantasiosi che, con pochissimi mezzi e budget esigui, riuscivano a creare piccoli capolavori, diventati poi pietre miliari del cinema dell’orrore.
Ci sono oggi, invece, la crisi del cinema, gli incassi miseri e la conseguente decisione dei produttori di rimettere mano a quei gioielli degli anni Settanta/Ottanta per sfornare una serie di debolissimi remake.
Tutto è iniziato nel 2003, quando Michael Bay (regista di famosi action come “Armageddon” e “Transformers”) decide di produrre, con la sua compagnia Platinum Dunes, un remake del cult di Tobe Hooper “Non aprite quella porta”. L’impresa era rischiosa. L’originale del 1974 aveva infatti già dato adito a tre sequel clamorosamente sfortunati al botteghino (nonché ad uno apocrifo italiano dalla stasse sorte) e bistrattati dalla critica. Così Bay decide di chiamare alla regia un giovane talentuoso di ventinove anni, Marcus Nispel, che aveva al suo attivo tanti videoclip musicali di successo (per star come George Michael, Janet Jackson ed Elton John) e oltre mille spot pubblicitari. Con l’aiuto in fase di supervisione dello stesso Hooper, e dello sceneggiatore della pellicola originale Kim Henkel, il film fu un grande successo di pubblico (oltre cento milioni di dollari d’incassi a fronte di un budget di nove) e anche la critica gridò alla rinascita del sottogenere Slasher (ovvero horror che hanno per protagonista un killer che uccide le sue vittime in maniera particolarmente fantasiosa e violenta, di solito con un’arma ricorrente).
E infatti il “The Texas Chainsaw Massacre” (titolo originale della pellicola di Hooper) di Nispel ha in sé tutte le caratteristiche genuine degli horror di quel periodo: una bella costruzione della tensione, effettacci sanguinolenti fatti con pochi mezzi ma di grandissimo impatto, un cast con le facce giuste e qualche bella interpretazione (vedi lo sceriffo psicopatico di R. Lee Ermey), una fotografia cupa e volutamente sporca e il pregio di discostarsi dall’originale senza ricalcarne pedissequamente ogni sequenza.
Questo è il film che ha dato il via ad una serie pressochè infinita di remake, girati sempre con mezzi minimi ma senza alcun valore artistico, né tantomeno un briciolo di consapevolezza su come si giri una sequenza davvero terrificante.
Si è cominciato nel 2005 con i pessimi “The Fog – Nebbia Assassina” di Rupert Wainwright e “The Amityville Horror” di Andrew Douglas, remake degli omonimi film dei maestri John Carpenter e Stuart Rosenberg. Entrambi i film hanno lo stile che predominerà tutti i remake del nuovo millennio: fotografia patinata che perde quel tocco grezzo che caratterizzava i modelli, cast fatto di fighetti appena usciti da qualche serie televisiva per teenager o da qualche filmetto per ragazzi, tanto sangue ma praticamente zero spaventi, al punto da far risultare quasi comico e grottesco l’accumulo di efferatezze viste sullo schermo.
I risultati al botteghino, tuttavia, premiano questi esperimenti e da quel momento, qualsiasi horror che abbia lasciato anche la più minima traccia nell’immaginario cinematografico viene riciclato. Ecco così spuntare i remake di: “Il giorno di San Valentino” (“San Valentino di sangue in 3D” – 2008), “Non entrate in quel collegio” (“Patto di sangue” – 2009), “Natale rosso sangue” (“Black Christmas” – 2006), “Non entrate in quella casa” (“Che la fine abbia inizio” – 2008) e “Il presagio” (“Omen” – 2006).
Peggio ancora si va quando il rifacimento sfiora quasi il sacrilegio: è il caso della saga di “Nightmare”, indissolubilmente legata alla creatività di Wes Craven e, ancora di più, all’interpretazione di Robert Englund, magistrale impersonificatore del baubau di turno Freddy Krueger.
In questo caso il regista, l’esordiente Samuel Bayer, ha optato per una versione che ricalca fedelmente lo script originale, perdendo ovviamente il confronto. Perché là dove c’era la mano visionaria di Craven, qui c’è il solito esordiente proveniente dal mondo dei videoclip che sa come dare una buona confezione ad un film ma ne tralascia completamente la sua anima, quel qualcosa in più che regala le emozioni al pubblico. Aggiungendo poi che Jackie Earle Haley è un Krueger dignitoso, ma imparagonabile all’originale, la frittata è fatta.
A Craven, tra l’altro, non è andata molto bene sotto il punto di vista dei remake. E’ stato infatti saccheggiato altre due volte: la prima con una dignitosa versione de “Le colline hanno gli occhi”, diretto però da un regista non esordiente, Alexande Aja, con due belle pellicole di genere alle spalle (tutto rovinato poi però con un sequel della peggior specie); la seconda con il tremendo “L’ultima casa a sinistra”, remake del suo primo film del 1972, un piccolo capolavoro di efferatezza figlia del disagio giovanile americano dei Settanta, qui completamente ignorato e appiattito in una confezione laccata e ripulita.
Ci sono poi quei casi in cui già i sequel dell’originale avevano perso la carica dirompente del capostipite: accade così che “Grano rosso sangue” del 1984, tratto da un ottimo racconto di Stephen King, inquietante e con un’indimenticabile colonna sonora, dia il via ad un’accozzaglia interminabile di seguiti (ben sette), tanto brutti da far sembrare l’anonimo remake (“Campi insaguinati” del 2009) un film di Kubrick.
E poi c’è la saga di “Halloween”, iniziata da John Carpenter e proseguita da abili mestieranti come Dwight H. Little e Tommy Lee Wallace, arrivata all’ottavo capitolo già a corto di ossigeno e completamente stuprata dal dittico firmato Rob Zombie.
Proprio Rob Zombie, che aveva già provato ad imitare (in via non ufficiale) “Non aprite quella porta” con il soporifero “La casa dei 1000 corpi”, in questa occasione si azzarda a creare non uno, ma ben due capitoli-remake dell’insuperata epopea dedicata al killer Michael Myers. Ovviamente non c’è più Donald Pleasence e al suo posto arriva un gigionesco Malcom McDowell, e invece di Jamie Lee Curtis, un’attricetta da due soldi (Scout Taylor-Compton), che si limita a gridare quando la sceneggiatura lo richiede.
Anche Nicolas Cage, uno degli attori più sopravvalutati degli ultimi vent’anni, ci si è messo personalmente in questo business, producendo e interpretando il remake del film culto “The Wicker Man” del 1975: la sua versione è “Il prescelto”, dove non si ritrova sicuramente l’atmosfera rarefatta e straniante dell’originale, ma invece un po’ di azione, i gridolini isterici di Cage e qualche effetto speciale (la produzione stavolta è da kolossal).
Negli ultimi due anni si sono aggiunti alla folta schiera “Il vampiro della porta accanto”, remake di “Ammazzavampiri”, dove già il titolo la dice lunga su quanto possa spaventare questa nuova versione, influenzata più dalla saga di Twilight che da quella di Dracula (e pensare che ci si è messo nientemeno che Colin Farrell come protagonista); “La casa” che butta giù la trilogia indimenticabile creata da Sam Raimi, con un film tutto effetti speciali e poca costruzione psicologia, una componente che era essenziale nella storia del 1981, del quale ritorna anche lo storico protagonista Bruce Campbell, in un cameo post-titoli di coda, giusto come specchietto per le allodole; e addirittura l’ennesimo “Non aprite quella porta 3D”, dove la terza dimensione è inutile, gli effetti in CGI sono palesemente finti e il caro vecchio Faccia di Cuoio diventa addirittura il buono della situazione.
Unico remake degno di nota in questa nuova tendenza tutta hollywoodiana, è quello di “Venerdì 13” del 2009: non un vero e proprio rifacimento quanto una sorta di riavvio della saga, diretto non a caso da quel Marcus Nispel che ha avuto l’onore di iniziare questo trend. Ma resta ancora l’unico ad aver appreso la lezione di quel periodo, l’unico che sa coniugare una massiccia dose di violenza a dialoghi non banali, con un po’ di umorismo e tante belle scene di tensione. L’unico che se avesse lavorato negli anni Ottanta, sarebbe forse assunto al rango di maestro insieme a quelli ai quali si ispira, e che invece nei Duemila rimane confuso nella moltitudine di registi improvvisati che credono che la paura sia facilmente indotta attraverso sangue e arti mozzati.