di Marco Chiappetta
CANNES – Sotto una pioggia torrenziale, biblica se cadessero anche rane, anche l’immagine della Costa Azzurra tutta sole mare e felicità diffusa e venduta dai dépliant sembra essere finzione, cinema. Così come questo gigante agglomerato di gente di cinema che è il Festival di Cannes, 35.000 accreditati nella media, tra stampa, pezzi grossi, pezzi piccoli, e tutti gli scalini della gerarchia professionale, che sotto la luce dei riflettori, oltre i vetri scuri delle limousine e gli smoking noleggiati, sembra essere ciò che non è. Ideale film d’apertura per il festival più importante e glamour del mondo, “Il grande Gatsby” è lo specchio di Cannes: così che lo spettatore medio che guarda lo schermo, guarda se stesso. Capirebbe qualcosa in più di sé, della vita, del cinema, se solo la profondità del film non fosse solo quella del 3D, e se dal lucido cri(p)tico romanzo di Francis Scott Fitzgerald sulla società americana fosse trasparso qualcosa di più della semplice scenografia frivola e luccicante. Certo, ne condivide lo spirito, ma non basta. Il sogno americano che si rivela incubo, le ipocrisie nascoste sotto trucchi, gioielli, vestiti, dietro tenute formidabili e dopo feste dionisiache, così abilmente descritto da Fitzgerald diventa qui lustrino decorativo, in un circo melodrammatico teso allo spettacolo e all’effetto visivo/uditivo, con uso diabolicamente insistito della grafica e di una anacronistica musica pop, non lontana dalla cacofonia, che arresta il film e le sue potenzialità narrative (che il cinema già ha conosciuto diverse volte) nello stesso nulla compiaciuto e ingenuo che circonda i suoi personaggi. Non è argomento per la solita diatriba, meglio il cinema o la letteratura, ma decidere l’arte cosa debba fare. Delle due facce del festival, cinema d’arte e cinema d’intrattenimento, “Il grande Gatsby”, fuori concorso come uno specchietto per le allodole (i media), è l’emblema della seconda: pop, kitsch, coloratissimo e sfavillante, dispendioso e colossale, ma vuoto e melodrammatico a tavolino, si rivolge a un pubblico moderno, già drogato abbastanza di televisione e pubblicità per non capire la differenza con un film.
In queste due ore e venti di spazio pubblicitario, sostenuto da visioni e suoni di nuovo millennio, si dipana la storia, o meglio il mito, di Jay Gatsby (Leonardo DiCaprio), misterioso e affascinante milionario, che venuto dal nulla, con una fortuna di cui poco si sa, è diventato il vate della vita mondana di New York, nei ruggenti anni ’20. Il suo vicino di casa a Long Island, Nick Carraway (Tobey Maguire), broker di Wall Street e aspirante scrittore, entra nelle sue grazie e nella sua villa, spiando con adulazione e stima il mistero che lo circonda e che, oltre lo sfarzo e la megalomania, cela, come per il cittadino Kane di Orson Welles, un dramma e un’ossessione: l’amore per la bella Daisy (Carey Mulligan), finito durante la guerra e con il matrimonio di lei per il non amato vanaglorioso Tom Buchanan (Joel Edgerton), e pronto a rinascere in una di queste tante feste. La tragedia è dietro l’angolo, ma nessuno, tra cocktail e frivolezze varie, può accorgersene.
Baz Luhrmann, regista sinonimo di postmodernismo, già autore rivoluzionario e discusso di “Romeo + Giulietta” e “Moulin Rouge”, dopo aver ringiovanito Shakespeare e i fasti della Belle Epoque, riprova la carta dell’anacronismo e dell’eccesso con un classico della letteratura americana, che sembra fatto apposta per il suo stile. Eppure è chiaro che l’occhio di Luhrmann non vale la penna di Fitzgerald, che i ruggenti anni ’20 sotto i rumori del rap e del pop sono solo i funesti anni ’10 nostrani, e che il vero anacronismo è al contrario: la società di oggi che si veste come all’epoca del jazz, come se fosse carnevale. Ma senza discutere le volontà autoriali, non si può leggere il film oltre la sua patina da numero di Vanity Fair: là dove tutto abbonda, non c’è invece denuncia, né contraddizione alla società di ieri gemella a quella di oggi, solo un adagiante e accomodante conformismo dallo stile fino al sentimento, che si spegne nella mente come la luce verde che Gatsby non riesce ad afferrare mai.