di Marco Chiappetta
CANNES – Erede e allievo di Carlos Reygadas, uno dei registi più controversi e interessanti del panorama latinoamericano di oggi, Amat Escalante si impone a Cannes come uno dei nuovi talenti da seguire nei prossimi anni. Già presente sulla Croisette, nella sezione Un Certain Regard, nel 2005 con “Sangre”, si impone oggi all’occhio con un film, “Heli”, assolutamente unico. Heli, da cui il titolo, è un ragazzo messicano che vive in condizioni di estrema povertà in una baracca ai confini del mondo, col padre, la moglie, il figlio neonato, e la sorellina Estela: questa, a discapito della giovane età, ha già un rapporto adulto e maturo con un soldatino diciassettenne, costantemente umiliato dai suoi superiori durante gli allenamenti. In questo spaccato di miserabile vita quotidiana subentra il male, già annunciato nello scioccante prologo, con Heli e il “cognato” legati e imbavagliati sul retro di un camioncino, trasportati da chissà chi su di un ponte. Un impiccato. È la prima di una serie di violenze inaudite, raramente viste al cinema in tale asciutta freddezza (se non in Michael Haneke, lo stesso Reygadas, Lars Von Trier,Park Chan-Wook, Kim-Ki Duk e pochissimi altri). Si ritorna a questa scena, all’inizio poco chiara, verso la metà film: ora si capisce, ora il film comincia. Il nocciolo di questa esplosione di violenza è tanto semplice quanto banale: il ragazzo di Estrela ruba, dopo una retata del governo per cui lavora, alcuni pacchi di cocaina e li nasconde nelle tubature idriche della casa della ragazza; Heli li scopre e li getta via, in un piccolo stagno, probabilmente avvelenando la mucca (?) che vi è dentro. Non basta. Il cartello della droga non perdona, e lo spettatore vede tutto, proprio tutto, di questa sanguinosa vendetta, molto spartana e poco spettacolare. Vede come e più che nella vita reale il male assoluto, la crudeltà, la violenza del mondo, in un’atmosfera di disperato squallore come “Gomorra”, dal quale non si può uscire, ma solo immergervisi impotenti, con una sorta di voyeurismo masochistico. Le torture brutali, le bastonature, le violenze su bambini e animali, rapimenti e omicidi, la suspense, lo choc improvviso sono il contenuto estetico coraggioso, spietato, intensissimo di quest’opera particolarissima, sorprendente e assolutamente non per tutti. La sua asciuttezza, la sua semplicità, la sua sintesi perfetta, ne accrescono l’impatto diretto ed emozionale: la violenza filtra dallo schermo come una bomba. Non c’è spazio per il pulp e per l’autocompiacimento, al massimo talvolta per dell’ironia nera e una morbosa sessualità ostentata, peraltro coerentemente inserite nel contesto. Le vedute del Messico desolato, i volti caratteristici dei messicani, i volti del male che non si vedono, i piani fissi e alienanti, ne fanno un film dalla identità riconoscibilissima. L’influenza di Reygadas, che l’ha prodotto, e soprattutto del suo ultimo film, “Post Tenebras Lux” (premiato a Cannes 2012 per la regia, in uscita in Italia a fine maggio finalmente), è evidente, nello stile e nei temi (vita povera, crisi di coppia, l’innocenza tradita della bambina, la violenza gratuita sui cani), ma in questo l’allievo supera certamente il maestro, evitando pretenziose cadute nel virtuosismo e nel surreale, concentrandosi su una vera storia, aneddotica ma esemplare, e rappresentandola con un realismo disarmante ed esplosivo, senza sporcarla con manie narcisiste e invenzioni artistiche. La pura, crudele verità. Un piccolo, micidiale ritratto di un microcosmo animalesco, ancor più che criminale, che senza autocompiacersi non risparmia nulla al pudore e alla sensibilità dello spettatore, facendosi un’esperienza forte, implacabile e sconvolgente, che continua a colpire occhio e mente anche oltre i titoli di coda. Una vera scoperta.