di Marco Chiappetta
CANNES – Non solo tulipani e biciclette in Olanda, ma anche cinema, poco, molto poco (mancava un loro film in competizione da trentotto anni), ma di sicuro interesse. “Borgman”, di Alex Van Wanderdam, ha un tipico stile nordico, molto asciutto, stralunato, alienante nel suo distacco, e racconta una storia ai limiti del surreale, se non del paranormale, con un umorismo nero spiazzante e di un’amoralità irresistibile.
Camiel Borgman (Jan Bivjoet, probabile candidato come miglior attore del festival), barbone ingegnoso e completamente folle, si introduce nella bella casa con giardino di una famiglia borghese: Richard, il capofamiglia, lo scaccia con violenza, mentre la moglie Marina, frustrata e insoddisfatta, ne subisce il malefico magnetismo e di nascosto dal marito se ne prende cura, prima nascondendolo in una casupola nei pressi, poi offrendogli di rimanere come giardiniere sotto mentite spoglie, infine di uccidere il bruto marito. Nel frattempo eventi strani si susseguono, con le psicologie della famiglia in mutamento e continua tenzone. L’influenza malefica, quasi fantasmagorica di Borgman crea un’atmosfera di terrore e umore malsano sia nella coppia, sia nei figli, sia nella giovane tata danese, tutti preda di una possessione diabolica impercettibile ottenuta da quest’impeccabile Satana ora clochard sbandato, ora sedicente giardiniere, con ipnotismo e morbosità. Borgman ricorre a ogni stratagemma, a ogni violenza fisica, e soprattutto alla collaborazione di alcuni loschi figuri per confermare il suo statuto di occupante della casa, e distruggere, fisicamente e psicologicamente, questa perfetta famiglia opulenta. Lo fa influendo negativamente sui sogni di Marina, alimentando in lei un odio ingiustificato verso il marito, e un’insaziabile voluttà nei suoi confronti, e che lui tende a frustrare negandosi con fermezza. Borgman e i suoi agiscono dalle retrovie, con mezzi diabolici e fini mai chiari, nemmeno alla fine.
Il film ha una pulsione di morte e desiderio sessuale interlacciata: ma il sesso, come la realtà e il benessere borghese, restano chimere intoccabili, intangibili. Si ride, e di gusto, per la continua sessione di trovate nere che Borgman e i suoi escogitano, artificiosamente, per ribadire la presenza di lui, vate demoniaco e demiurgo macchinoso, all’interno di questo microcosmo domestico pronto alla tempesta. Sembra un film di Haneke, con la sua violenza terribile e la sua austerità senza speranza, in un mondo dominato dal male e dal peccato, ma con in più un contralto ironico macabro e a dir poco disturbante, che penetra sottilmente fino a scandagliare le certezze e la morale di chi guarda, portando alla ribalta un nuovo aspetto del mondo, per nulla ottimista. Resta un che di pretenzioso, di filosofico e di ambiguo, con molte scene e inquadrature non spiegate e lasciate fuori campo, ma la parabola sulle fobie e follie moderne, con il male che entra ed esce dalla casa, arriva e centra il punto.