di Marco Chiappetta
CANNES – Clive Owen, Billy Crudup, Marion Cotillard, Mila Kunis, James Caan, Zoe Saldana, Matthias Schoenaerts, in un solo film, hanno assicurato l’evento mediatico del tappeto rosso, ma anche, con le loro interpretazioni, il valore artistico di “Blood Ties”, il nuovo film di Guillaume Canet, un autentico gioiello di cinema-cinema, quello che appassiona, commuove e trasporta. Siamo a New York negli anni ’70, e dopo dodici anni di galera il delinquente Chris (Clive Owen) torna alla sua realtà, mediocre, povera, estremamente conflittuale col fratello Frank (Billy Crudup), che è, all’inverso, uno sbirro onesto e ligio. Una rivalità li separa da sempre, da un trauma di infanzia, due stili di vita, due personalità, e l’affetto dello stesso padre Leon (James Caan), ormai in fin di vita, sbilanciato verso Chris, nonostante la galera e la fedina penale imbrattata. Ciononostante, Frank si dà da fare per ridare una possibilità al fratello figliol prodigo e rimetterlo sulla retta via: gli trova un lavoro, una casa, e lo riavvicina ai suoi figli e alla sua donna, la prostituta italiana Monica (Marion Cotillard). Eppure tutto è pronto alla tragedia: Chris, che nel frattempo s’innamora di Natalie (Mila Kunis), ripiomba inevitabilmente nel crimine e nelle rapine, e a Frank, combattuto tra dovere e famiglia, resta il dubbio tra negligenza decisa dal sangue o un’efficienza pratica, professionale, sottilmente vendicativa. E inoltre deve difendersi dal bruto Anthony Scarfo (Matthias Schenaerts), che ha messo in prigione, e al quale ha rubato la donna, Vanessa (Zoe Saldana). Come nel suo precedente, bellissimo “Piccole bugie tra amici”, questo film è un tributo all’arte dell’attore, ma anche una storia enorme di due ore e mezza che non stanca mai, tra mélo familiare e romantico, noir e gangster movie, ambientato in una New York d’epoca molto realistica e commentata da una selezione musicale perfetta. Dopotutto la musicofilia, come la direzione degli interpreti e l’assetto narrativo corale, è il punto di forza personalissimo di questo grande e giovane (37 anni) regista francese, a cui la trasferta americana ha giovato senza tradirlo. Scritto a quattro mani con James Gray, e ispirato al film di Jacques Maillot “Le lien du sang” (in cui Canet fu attore), è di una ricchezza psicologica e drammatica davvero encomiabili: il rapporto tra fratelli, ma anche padre-figlio, uomo-donna, bene-male, sono sviluppati con una lima che mette da parte il superfluo e concentra, sintetizza, riduce tutta l’essenza di questi conflitti e gelosie, odi e amori, nell’immagine, nel montaggio veloce, nei dialoghi, nello studio complesso dei personaggi, nelle sottotrame che si intersecano, nella cadenze tragiche, nella violenza spettacolare, nelle conclusioni imprevedibili, fino a una redenzione pietosa, in crescendo, che suggella e immobilizza il film nella sua grandiosità. Tutto ciò, appunto, in due ore e mezza, solitamente tante, qui irrisorie: miracolo del grande cinema.