di Marco Chiappetta
CANNES – In quest’anno all’insegna dell’Asia, dove in competizione ci sono due giapponesi, un cinese e un iraniano, e il festival dedica una retrospettiva a Bollywood, il nuovo film di Takashi Miike, “Shield of Straw” (titolo originale: “Wara No Tate”) è tra i più spettacolari e divertenti. Ninagawa, un vecchio miliardario malato, annuncia ai media di mettere una taglia di un miliardo di yen per chi gli uccide l’assassino della nipotina, Kiyomaru. Le masse impazziscono, parte la caccia all’uomo. Una squadra di poliziotti è incaricata di trasportare il mostro alla stazione di polizia di Tokyo. Lungo il tragitto, ora in furgone, ora in treno, ora in auto, l’agente idealista Shiraiwa, benché anch’egli vittima di una tragedia familiare ingiusta e irrisolta, incoraggia i suoi a non lasciarsi tentare dalla copiosa taglia e a combattere gli avventori che si susseguiranno. È carneficina. E persino tra i poliziotti nasce un sentimento di reciproco sospetto e disistima che li distrugge gradualmente. Finale al cardiopalma. Con uno stile plastico impeccabile, Miike mette in scena un originalissimo thriller, con cadenze da western metropolitano, e con annessa riflessione sulla giustizia, ambigua, relativa, se non impossibile, e sul ruolo sempre più schiacciante e immorale dei mass media, che porta il Giappone intero verso un delirio collettivo fascista e reazionario. Suspense e colpi di scena rendono questo film un’esperienza adrenalinica molto forte, aiutata da un uso estetico della violenza e del sangue di sicuro fascino. Peccato forse che il film calchi la mano più sullo spettacolo, comunque garantito, ma talvolta artificioso (il miliardario che segue il detenuto tramite GPS è fantascienza), e resti invece piuttosto superficiale nella psicologia, o discutibile per ciò che dice o vuole dire: è giusto salvare la vita di un pedofilo assassino, anche a costo di altre vite umane? Senza dare pietà al detenuto, che resta mostruoso e inumano fino alla fine, la condanna a morte alla quale è comunque destinato una volta in carcere rende vano tutto il sangue, tutto il sacrificio e il dolore di chi lo ha protetto per farlo sopravvivere, in due ore di film: ed è appunto l’etica giustizialista, vagamente retorica, del protagonista che cozza, apposta, con la morale dello spettatore, e lo sorprende, senza rispondere alle premesse iniziali. Non c’è fascismo, occhio per occhio, o vendette private come nei western o nel recente cinema asiatico, ma un culto della giustizia che sopravvive, nell’uomo, fino all’ultimo, per poi morire con lo Stato e il suo mostro.