di Marco Chiappetta
CANNES – L’unico italiano in concorso, il solito Paolo Sorrentino, ci regala la solita lezione di stile cinematografico, con “La grande bellezza”, un film molto atteso, bello ma incompiuto. Alla quinta apparizione sulla Croisette, che gli fu già felice per “Il Divo”, il regista napoletano mette in scena un film che è tutto il suo universo: un personaggio e un mondo in decadenza, gli opposti di sublime e squallido, uno stile ricercato e sofisticato, una scrittura di frasi a effetto e situazioni paradossali, una tristezza senza fine. E in più, abbondante come sempre, l’eccesso, nella regia, nei dialoghi, nell’interpretazione di un Servillo bravo come a teatro perché in fondo attore nella vita di tutti i giorni in una farsa trash che è la dolce vita italiana, di questa Roma cui l’occhio magistrale di Sorrentino regala dignità cinematografica, realismo magico, surrealismo grottesco. La cifra estetica e narrativa del suo cinema, il “troppo” che storpia sempre, è qui più che mai imponente. Istrionico della macchina da presa, Sorrentino inizia il film con quindici minuti che resteranno nella memoria: la Roma gloriosa, tranquilla, musicale, poetica, storica, che fa morire d’infarto, come Napoli, un turista asiatico che ne mira il panorama; e poi, furioso contralto, grottesco e brutale, verso la Roma notturna, delirante, famelica, avida e squallida, che si scatena al ritmo della cacofonia robotica moderna in danze demoniache, sessuali, deliranti. È il mondo di Gep Gambardella, che si mostra allo schermo col suo sorriso sornione, maschera di una vita infelice e frustrata: quella di intellettuale, scrittore di talento, finito a scrivere robaccia per giornaletti, e a fare da vate dannunziano in feste edoniste e goliardiche. La sua vita, i suoi ricordi, i suoi rimorsi, la sua voglia di redenzione e di cambiamento, la sempiterna corruzione di questa Roma dolce e amara, grande e piccola, meravigliosa e decadente è il centro di questo film che si muove molto in superficie, ma muove meno all’interno dei sentimenti, arenato in una certa freddezza di stile che, pur visivamente ricco di momenti di magia, non garantisce un’emozione duratura. Limite, non da poco, di un film particolare, più poetizzante che poetico, più sentenzioso che filosofico, eppure di una grande bellezza visiva che non è da sottovalutare. Ispirandosi ovviamente a Fellini, e non solo a “La dolce vita” di cui è una sorta di aggiornamento moderno – ancora più feroce perché i tempi sono ancora più feroci – ma al suo stile sovrabbondante di immagini, personaggi, feste, voci di dentro e fuori campo, ricordi, apparizioni surreali e magiche (qui giraffe, suore centenarie, lanciatori di coltelli, una nana, un chirurgo estetico col bigliettino della fila come dal salumiere, etc.). La struttura disarticolata del film offre numerosi scampoli satirici e iperrealistici di questa società, di mediocrità italiana, danzereccia, godereccia, finta intellettuale, di talenti senza ambizione e ambiziosi senza talento. Qualcosa, nelle due ore e mezza di film, poteva essere evitato, accorciato, moderato: ma così è Sorrentino, e dietro la bellezza, anch’essa eccessiva, del film, il sospetto del solito esercizio di stile è forte. La prima parte è sensazionale, e i quindici minuti iniziali sono promettenti e indimenticabili; poi il film si perde e si ripete un po’, per poi prendere le vie di un viaggio interiore con voci e preghiere alla vita che ricordano Malick (Sorrentino ne fu concorrente a Cannes due anni fa), ma che sembrano più di condimento che necessari. Roma è bellissima grazie a Luca Bigazzi, il film è per un terzo suo, come un altro terzo di Servillo, enorme. Attorno a lui, in ruoli passeggeri o meno, ci sono i bei volti del cinema italiano, con un inedito Carlo Verdone, drammaturgo fallito e deluso, una Sabrina Ferilli in parte come spogliarellista, un simpatico Roberto Herlitzka come cardinale. Quanto a Sorrentino, è il suo solito film. Non cambia, e certo non peggiora, eppure un minimo salto di maturità, dopo “This Must Be The Place” e soprattutto l’esperienza di romanziere (“Hanno tutti ragione” ne è l’epigrafe), lo si riscontra: con malinconia, umorismo amaro, cinismo, e infinita tristezza fa i conti con se stesso, con la sua società, con la “sua” Roma, col suo modello felliniano, e anche con la morte, la solitudine, la vecchiaia, l’esistenzialismo nero. Con profondità o banalità a seconda dei casi. Imperfetto, eppure rimarcabile, un film che sembra avvalorare il progetto di Flaubert che Servillo cita a ripetizione: fare un’opera sul nulla. Un nulla ottenuto non togliendo o limando, ma aggiungendo e sovraccaricando. È comunque curioso come i nostri registi di punta, Garrone romano, Sorrentino napoletano, si scambino le città e le vedano con l’occhio estraneo per quello che sono, e senza pietà: raccontano l’Italia come e meglio dei giornali.