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“Nebraska”: bianconero, ironia e malinconia, nell’America di Alexander Payne

nebraska-660x440-649x399di Marco Chiappetta

CANNES – Il nuovo film di Alexander Payne, già premio Oscar per le sceneggiature di “Sideways” e “Paradiso amaro”, è un altro apologo, dolceamaro, dell’America di oggi. Come sempre nel suo cinema, i temi della famiglia in decomposizione, dell’identità e delle radici, del viaggio alla ricerca della verità o di se stessi o della pace familiare,  la solitudine dei perdenti e degli outsiders della provincia, si affacciano sullo schermo con uno stile brioso, qua e là poetico, divertente e amaro, leggero e un po’ cinico. In bianconero anacronistico, con un budget ridotto, i volti e i paesaggi della vera America sono di grande bellezza, suggestionata anche musicalmente.
La storia è quella del vecchio Woody Grant, alcolizzato e rimbambito, che crede di aver vinto un milione di dollari, senza rendersi conto di essere stato abbindolato da una pubblicità-truffa, ed è disposto a tutto pur di andare a riscuotere il premio fasullo, persino camminare dal Montana fino al Nebraska. Per accontentarlo, mentre tutti lo deridono, il figlio David lo accompagna in auto. È un viaggio pieno di tragicomiche disavventure e incontri, ma soprattutto c’è il malinconico ritorno di Woody nelle terre patrie del Nebraska, tinto di ricordi e rimorsi, un percorso che sancisce qualche bilancio amarognolo della sua vita. Passato e presente, padri e figli, in una simbiosi che non cade mai nel banale e o nel melodramma. Ironico, spontaneo, tendente alla poesia, è un piccolo grande film di grandi valori, di rapporti umani e familiari, film di vita e solitudine, dove la sconfitta della vita può ancora regalare esigui piccoli trionfi, in linea con la poetica di Payne, cantore di un’America rude, desolata, ma quanto umana, quanto autentica.

L'attore Bruce Dern (a destra) e Alezander Bayne, regista di "Nebraska"

L’attore Bruce Dern (a destra) e Alezander Bayne, regista di “Nebraska”