di Marco Chiappetta
CANNES – “La vie d’Adèle”, sottotitolato “Chapitre 1 & 2”, sembra un esperimento, una bozza, un progetto di film in presentazione. Non ci sono neanche i titoli di testa e di coda, due capitoli, ma magari anche tre, francamente di poco impatto e poca coesione. Tre ore, tantissime, inutili di storia d’amore omosessuale: comincia bene, con i dubbi e le inquietudini dell’adolescente Adèle, che trova finalmente la sua dimensione sessuale e la sua personalità nell’incontro con Emma, un’artista dai capelli blu, che la eccita prima psicologicamente, infine fisicamente. E qui si perde, in una sagra di gratuito osé che non spiega niente e provoca soltanto. Le scene d’amore, appassionato e intenso, sono estremamente lunghe e pretenziose, talmente realistiche e sfacciate da risultare inutile voyeurismo, se non addirittura cinema a luci rosse. Tanto per riempire il film, che per il resto procede, ordinariamente, senza spunti, in una cronaca di un amore che nasce, cresce, muore e tenta invano di risorgere. Tutto già visto, quando le forbici al montaggio aiutavano la digestione, e viveva la censura. Grande prova di recitazione delle due attrici, Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux, estreme nella passione e anche nel dramma: tra sguardi, effusioni, litigi furiosi, è quel che c’è da salvare di un film poco originale, psicologicamente discontinuo, malsanamente compiaciuto nella sua mostra, non volgare ma eccessiva e infine noiosa, di uno spintissimo rapporto omosessuale a cui più sintesi e più ellissi avrebbero giovato. Ang Lee, che è tra i giurati, ne “I segreti di Brokeback Mountain”seppe raccontare la tensione di un amore impossibile dosando in modo necessario l’esplicito e l’implicito, mostrando quanto basta, facendo poesia. Il regista Abdellatif Kechiche, che pure molti reputano tra i papabili alla Palma d’oro, ha invece davvero esagerato.