di Bruno M. Criscuolo
Gli orrori in Italia parevano non finire mai. Non erano ancora stati seppelliti i morti, civili e militari del conflitto, che subito nuovi cadaveri riemergevano alla luce del Belpaese. Le foibe istriane, il triangolo della morte emiliano, le Fosse Ardeatine. Episodi dimenticati, fino a qualche tempo fa, dalla storiografia ufficiale, che dimostrano che la Resistenza e i valori della Resistenza, sui cui si fonda la nostra Costituzione, sono stata infangati da indegni episodi.
Fino al 1989 è stato impossibile inquadrare storicamente il fascismo e i drammi successivi alla sua catastrofe. In un clima avvelenato dalle reciproche accuse, gli italiani si avvicinavano ad una tappa epocale nell’evoluzione istituzionale del paese: il Referendum tra Monarchia e Repubblica.
La Corona Italiana, incarnata nella figura di Vittorio Emanuele III, dopo la deposizione di Mussolini e la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943, lasciò il paese e le forze armate in una situazione di vuoto istituzionale. Descritto come un sovrano taccagno, arido, cinico, riservato, il suo regno, iniziato sotto i migliori auspici di legalità e di costituzionalità, venne svuotato di significato dall’avvento di Mussolini. Un re “borghese”, ambizioso nel mantenimento della dinastia, convinto di essere l’unico capace di gestire gli affari del paese ma incapace di contatto umano, che finì per essere schiacciato sotto il peso del compromesso dittatoriale. Poco dopo l’ingresso degli Alleati a Roma, il vento del “nord”, protagonista della resistenza all’invasore, in sinergia con il Regno del Sud, spazzò via il governo provvisorio di Ivanoe Bonomi, al quale successero nell’ordine prima il leader del CLN Ferruccio Parri e poi il primo grande statista italiano contemporaneo, Alcide de Gasperi. Ex esponente del partito popolare di Don Sturzo, aveva trascorso il Ventennio fascista rifugiato nella penombra presso la Biblioteca Vaticana. Un dilemma dominava le prospettive future: Monarchia o Repubblica? Vittorio Emanuele III preparò la casata reale alle elezioni abdicando in favore del figlio Umberto. Un uomo cresciuto in una disciplina ferrea, dotato di spirito di sacrificio e di abnegazione fuori dal comune. Fu deciso che la questione istituzionale sarebbe stata decisa il 2 giugno 1946, tramite referendum popolare, il primo a suffragio universale nella storia del paese. Il neo arrivato al trono era perfettamente consapevole delle scarsissime chance che la monarchia aveva di resistere all’ondata Repubblicana. La campagna elettorale delineò una netta preferenza per la Repubblica nel Nord e al Centro, mentre nel Sud, da sempre abituato all’alternanza di casate reali di varia nazionalità, dominava l’ideale monarchico. Umberto si trovò a fronteggiare piazze infervorate al grido di “Repubblica o caos”; il suo destino era ormai segnato. Tutte le forze politiche antifasciste, il PSI, il PCI e il Movimento d’Azione erano repubblicane per tradizione e retaggio culturale ed attribuivano alla Corona una correità nei crimini commessi dal regime mussoliniano. Nella DC, nonostante le posizioni fossero più articolate, De Gasperi riuscì, con sapienza, ad imporre la linea repubblicana. Anche i liberali erano divisi tra progressisti e coloro che supportavano i modelli di governo pre-fascisti. Il 10 giugno 1946, nella Sala della Lupa a Montecitorio, la Corte di Cassazione, presieduta dal presidente Pagano, dopo aver registrato il conteggio dei voti, stese l’atto di nascita ufficiale della Repubblica. I voti parlavano chiaro: Repubblica, 12.672.767 voti. Monarchia, 10.688.905 voti. Umberto fece sapere che avrebbe lasciato l’Italia. Dopo aver ricevuto ufficiali e uomini politici, congedò l’esercito e i corazzieri al grido di “Viva il Re”. La caduta della monarchia italiana fece il giro di tutto il mondo. Nonostante le contestazioni del risultato, espresse dall’addio senza abdicazione, Umberto fu costretto a lasciare il Paese, destinazione Portogallo. Tal esilio fu propiziato dall’operato di De Gasperi, che temendo una possibile sommossa popolare, durante il ri-conteggio, diede sfoggio di eccezionali capacità diplomatiche e riuscì a convincere il Sovrano a partire “per il bene del Paese”. La Repubblica aveva vinto. Di poco, ma aveva vinto. Un Paese spaccato a metà si riconobbe, però, nei partiti e nel nuovo ordinamento istituzionale ed accantonò la Monarchia nella memoria patria. Era un Paese che aveva voglia di guardare al futuro, una gran voglia di passare al futuro.