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“To The Wonder”: poetico, magnifico Malick, specchio di se stesso

26927di Marco Chiappetta

TRAMA: Neil (Ben Affleck) e Marina (Olga Kurylenko), russa emigrata in Francia, e giovane madre, si amano tra Parigi e Mont Saint-Michel, e insieme ripartono con la figlioletta di lei nella provincia dell’Oklahoma dove Neil svolge il lavoro di ispettore nei siti inquinati dalle industrie. Il loro amore, nella nuova realtà, si disgrega a poco alla volta: lei riparte per Parigi, lui si consola con l’amica d’infanzia Jane (Rachel McAdams). Abbandonata dalla figlia, Marina decide di ritornare negli Stati Uniti e per uscire dalla crisi chiede aiuto a Padre Quintana (Javier Bardem), prete a sua volta afflitto dai dubbi e dall’infelicità.
GIUDIZIO: L’esigua distanza di tempo tra “The Tree of Life”, capolavoro assoluto di vita e cinema, e questo suo ideale seguito complementare, presentato tra fischi e schiamazzi all’ultima Mostra di Venezia, è, per un regista poco prolifico e tanto enigmatico come Terrence Malick, un segno evidente di come queste due opere rappresentino un solo riflesso dello stesso autore, qui uguale a se stesso come una copia o un’ombra. Speculare, cerebrale e spirituale, sostenuto da una musica classica celestiale e dalla leggerezza area, eterea della camera del direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, il film non riesce a nascondere nemmeno per un secondo l’identità del suo regista. La vita, la bellezza, la grazia, il dolore, Dio, un cinema di sguardi, voci, silenzi, preghiere, mani, tatto, sensualità, religione, disperazione, minacciato di morte, e soprattutto un cinema anti-narrativo, di improvvisazione, fatto senza sceneggiatura, con attori costretti a vivere più che recitare, modelli silenti e agili di un universo poetico che non finirà mai di rapire. Malick è un poeta e filosofo del cinema come esperienza visiva interiore, non racconta storie ma esprime concetti, sogni e sentimenti, limitando le parole al necessario, e operando quella singolare scomposizione dei piani temporali, confusi e accavallati di modo da creare un solo sentimento, un solo unico sguardo sul mondo. Dire che il miracolo qui riesce meno del solito è riduttivo: la storia, pur probabilmente autobiografica e personale, ha poco magnetismo e dopo un inizio folgorante fatica a reggersi sul solo impianto visivo-musicale ancora una volta straordinario, eppure fine a se stesso. Un saggio di Malick, à la Malick, sempre interessante e unico e diverso, come solo il suo cinema, ma un film di bellezza incompiuta, spesso commovente e spesso superflua, a scampoli, che si confondono nel confuso marasma sentimentale e narrativo come polvere d’oro nella sabbia. Il sublime e l’indifferente si intervallano in un film che, pur durando meno dell’abituale, sembra aggiungere più che togliere, e che alla semplicità presunta della vita risponde con tono solenne e pretenzioso. Non certo quando parla di amore, crisi e dolore, ma quando nel film fa inevitabile ingresso il Dio inesistente e l’uomo pio (Javier Bardem) che lo cerca e non lo trova. È questo un collante poco stabile al nucleo amoroso dei due protagonisti. Più che un pretesto, è una nuova chiave di lettura che rivela il gioco intellettualistico, mistico del film: l’amore, l’apocalisse, il nichilismo eterno sotto forme elegiache e liriche. Tutto bello, ma tutto già detto e già visto in Malick, che non si è fatto scrupolo come sempre di scrivere le scene giorno per giorno, girarle come veniva, tagliare parti intere (tra cui Rachel Weisz, Jessica Chastain, Michael Sheen, Barry Pepper, Amanda Peet), e utilizzare riprese scartate in “The Three of Life” (come riportano i titoli di coda). L’ombra del capolavoro si fa pesante e qui resta solo ombra. Un film in progress, dove più che ricchezza c’è sovrabbondanza, ma, impossibile dimenticarlo né durante né dopo il film, è pur sempre un film di Malick.
VOTO: 3/5